Quei populisti senza crescita
Di fronte all’alta disoccupazione, soprattutto fra i più giovani, e alla stabilità del numero di famiglie italiane in condizioni di povertà relativa (10 per cento in media, ma il doppio nel Mezzogiorno) ci sono due strade: la redistribuzione o la crescita. Un esempio di redistribuzione è il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle, cioè un sussidio indipendente dallo sforzo che una persona dimostra di fare per trovare un lavoro. La redistribuzione finisce inevitabilmente in un aumento del debito pubblico e quindi in un rallentamento della crescita. Un altro esempio è il protezionismo: protezione delle aziende nazionali anche se sono poco produttive e i medesimi beni potrebbero esser acquistati altrove a prezzi inferiori. Anche questo danneggia la crescita sia perché prezzi più alti riducono i consumi, sia perché le rendite create dal protezionismo raramente si traducono in investimenti e progetti innovativi. Sia soprattutto perché il protezionismo blocca il meccanismo fondamentale che fa crescere un’economia: la sostituzione di imprese poco produttive con altre più produttive. Infine perché il protezionismo, declinato nella chiusura delle frontiere agli immigrati — il cavallo di battaglia della Lega Nord — se pur attenua l’emergenza nel breve periodo, non aiuta a risolvere il problema di un Paese in cui la popolazione sta riducendosi per effetto di un tasso di natalità in discesa: oggi 1,37 bambini per ogni donna.
Né pare rendersi conto che il contributo netto degli immigrati alle prestazioni sociali pagate dallo Stato vale, come ha spiegato il presidente dell’Inps Tito Boeri, circa 5 miliardi di euro l’anno. Cioè non riconosce che minore è il numero di immigrati che lavorano, più elevata sarà l’età alla quale potremo andare in pensione.
Il «populismo» cioè la promozione di «politiche aspirina» che attenuano i problemi nel breve periodo creando problemi più gravi domani, è una risposta comune a situazioni di crisi sociale. Ci sono due tipi di politiche populiste, come spiegano in un saggio illuminante Guiso, Herrera, Morelli e Sonno (Demand and Supply of Populism, CEPR, 2017). Quando l’origine del malessere sociale è identificato con la globalizzazione, in particolare con l’immigrazione, prevale il populismo di destra. Un esempio fu la rinascita del Ku Klux Klan negli Stati Uniti negli anni 20, quella volta non contro gli afroamericani, come nel secolo precedente, ma contro gli immigrati cattolici, italiani, polacchi, irlandesi, che arrivavano dall’Europa (si veda il saggio di Marco Tabellini, The Economic and Political Effects of Immigration, MIT, 2017). Quando invece il malessere sociale è attribuito a politiche liberiste (deregolamentazione dei mercati, privatizzazioni) prevale il populismo di sinistra. Un esempio fu la rivolta contro le politiche attuate in Argentina durante la presidenza Menem negli anni 90, che riportarono il peronismo al governo. L’alternarsi delle narrazioni con cui vengono spiegati gli choc che colpiscono un Paese spesso coincide con l’avvicendamento fra destra e sinistra. Ma resta il fatto che populisti di destra e di sinistra hanno in comune il fiato corto, una visione di breve periodo che, quando va bene, si limita a spostare i problemi al domani, rendendoli semplicemente più acuti.
Ciò che è accaduto in alcuni Paesi dell’Occidente, anche in Italia, nel decennio scorso è un caso di «tempesta perfetta». La globalizzazione della fine degli anni 90 e la crisi migratoria degli anni recenti hanno coinciso, dopo il 2007, con una crisi finanziaria non dissimile da quella che avvenne negli anni 30 del secolo scorso. Populisti di destra e di sinistra (Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Stati Uniti, e dall’altro lato Trump, Geert Wilders in Olanda, Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini) non solo, come sempre, hanno condiviso sostanzialmente le medesime proposte, ma questa volta lo hanno anche fatto allo stesso tempo, così trovandosi alleati. Il punto di incontro fra populismo di destra e di sinistra è stato il rifiuto delle élite, una narrazione suggestiva per ciò che in realtà significa rifiutare ogni vincolo di bilancio, cioè non considerare gli effetti che le «politiche aspirina» avranno sui nostri nipoti. Alcuni (ad esempio Dani Rodrik in Populism and the Economics of Globalization, Kennedy School of Government, luglio 2017) concludono che a questo punto la vittoria dei populisti è inevitabile. Lo è stato negli Usa e in Gran Bretagna, ma le recenti elezioni in Olanda, Austria, Francia e anche nella Renania settentrionale-Vestfalia, il più popoloso Länder tedesco, hanno dato indicazioni diverse. Nel Parlamento di Düsseldorf il partito di estrema destra, AfD, non ha aumentato i suoi 16 seggi e i Pirati, un partito libertario difficilmente classificabile, hanno perso tutti i loro 17. I cittadini, almeno in Europa, sembrano più lungimiranti dei populisti. È importante che chi è tentato dal rincorrere il populismo se ne renda conto. Camuffarsi da populisti ripudiando la storia della propria appartenenza politica non paga.
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