La reazione che ancora non c’è
C’è un grande assente nelle vicende — tra loro intrecciate — degli attentati terroristici islamici e del controllo statale dell’immigrazione: le comunità islamiche. Eppure i cittadini di origine o fede musulmana, che rappresentano circa il 7 per cento della popolazione dell’Europa (complessivamente, 49 milioni di persone, secondo stime recenti), sono danneggiati due volte dal terrorismo. Gli attentati producono, innanzitutto, negli Stati, una reazione di diffidenza nei confronti delle comunità islamiche già stabilite, una diffidenza che non agevola il dialogo interreligioso, la pacifica convivenza, l’integrazione. L’altra è una reazione di chiusura degli Stati a danno dei migranti appartenenti alla medesima comunità, che sarebbero interessati a entrare nei nostri Paesi.
È noto, infatti, che gli immigrati non si muovono alla cieca, hanno sempre in tasca il numero telefonico di un parente, un amico, un correligionario, o uno sfruttatore, appartenente alla stessa comunità di origine. Dunque, gli attentati terroristici impauriscono i cittadini europei, ma danneggiano anche gli immigrati musulmani e coloro che aspirano a stabilirsi sul territorio europeo. L’Unione delle comunità islamiche d’Italia, la Confederazione islamica italiana, il Centro islamico culturale d’Italia ed altre organizzazioni islamiche, anche nell’ambito del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano, operante presso il Ministero dell’interno, hanno fatto passi interessanti. Hanno condannato le violenze, dialogato con le istituzioni, si sono impegnati a lottare contro il terrorismo e a collaborare con il ministero dell’Interno, stipulando prima un «patto di cittadinanza», poi un «patto nazionale», obbligandosi ad aderire ai valori e ai principi dell’ordinamento statale e a contrastare il radicalismo religioso.
Ma le comunità islamiche potrebbero fare di più, in forme di autogoverno, per prevenire e impedire reazioni terroristiche? E i governi nazionali, nonché l’Unione Europea, potrebbero fare di più per stabilire rapporti con ordini religiosi e con comunità laiche? Gli uni e gli altri non dovrebbero svolgere un’azione educativa, pacificatrice, in modo che una parte della «rabbia musulmana» (sulla quale un grande esperto delle civiltà mediorientali, Bernard Lewis, ha scritto un ottimo libro, edito da Mondadori, qualche anno fa) possa sbollire? Non dovrebbero, se necessario, collaborare con le comunità nazionali ed europee, segnalando i focolai che tengono viva la rabbia e l’estremismo religioso? Conosco le obiezioni. Pur affratellati da un credo religioso, molti islamici vengono da comunità nazionali frammentarie, divise anche da modi diversi, talora opposti, di leggere il Corano. Il senso civico, il diritto di critica e la costruzione di un dibattito pubblico aperto al confronto tra opinioni diverse, anche in materia religiosa, sono il prodotto di lunghi anni di democrazia negli Stati europei, e non sono acquisizioni altrettanto diffuse nei Paesi di provenienza di molti immigrati.
Gli attentati rispondono non solo a precetti religiosi contro i «miscredenti», ma anche a un senso di malessere proprio di minoranze non integrate in contesti nazionali diversi da quelli di provenienza. Le guide religiose (gli imam), quando non educano esse stesse all’odio, non sono tutte preparate a svolgere un’opera diretta alla integrazione pacifica, nel rispetto delle culture diverse a cui l’Europa si è abituata dopo le guerre di religione. Gli autori di attentati sono spesso cittadini di Stati europei, nati su suolo europeo, educati nelle nostre scuole, che parlano le lingue europee, e che tuttavia restano esposti a processi di radicalizzazione talora anche repentini e sommersi. Tutto questo aumenta le difficoltà dell’opera, ma non la impedisce. Così come, in molti Paesi (innanzitutto il Regno Unito), le comunità islamiche sono riuscite a guadagnare il riconoscimento di loro usi, pratiche, istituzioni, diritti, allo stesso modo, esse potrebbero stabilire forme e luoghi di «autogoverno», diretti sia alla formazione e alla integrazione, sia al controllo sociale delle persone devianti, educate alla violenza, piuttosto che al rispetto reciproco. Se, invece, continuano gli attentati per impaurire le comunità europee e sfidare gli Stati, si corre il rischio di aumentare le difficoltà della convivenza e di indurre gli ordini statali a difendersi, con conseguenze difficili da calcolare. Insomma, come è stato detto di recente da una autorevole rappresentante della cultura islamica, tocca ai musulmani essere protagonisti del rigetto della violenza.
CORRIERE.IT
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