Mattarella studia il piano B: un “tedeschellum” anti M5s
Ogni siciliano è convinto che la Sicilia sia il «laboratorio» della politica italiana, e Sergio Mattarella è siciliano.
Dunque è con estrema attenzione e – dicono – con una certa preoccupazione che il presidente della Repubblica guarda alle prossime elezioni regionali, e alle risse che lacerano centrodestra e centrosinistra, che per ora non sono riusciti a mettersi d’accordo al proprio interno sui candidati governatori. Mentre il giulivo grillino Giancarlo Cancelleri, ben piazzato negli ultimi sondaggi, gira in lungo e in largo la Sicilia gridando alle piazze: «Le elezioni sono un referendum, tra noi e loro».
Se davvero il messaggio populista attecchisse nel fertile suolo siciliano, e i Cinque Stelle ne conquistassero il governo, molti vi leggerebbero un fosco presagio per le prossime Politiche, una spinta propulsiva che potrebbe lanciare Grillo e i suoi adepti verso Palazzo Chigi. Il presidente ovviamente non può dirlo, ma chi lo conosce lo descrive inquieto.
Al Quirinale immaginano cosa si metterebbe in moto, e non solo sul suolo patrio: le Cancellerie europee già fanno trapelare il proprio allarme per il pericolo di una eventuale vittoria di piccoli Trump alle vongole in un paese cardine della Ue; i mercati guardano nervosamente alle scadenze elettorali del Belpaese e potrebbero avere contraccolpi negativi già a novembre, dal «segnale» siciliano. Per questo anche sul Colle si guarda con grande attenzione a quel che accade nella politica siciliana e alle mosse dei due poli «tradizionali».
A destra si sta tentando una nuova offensiva per cercare di convincere Silvio Berlusconi a puntare sull’ex An Nello Musumeci, forte di sondaggi che lo darebbero al 33%, anche senza Ap, con un leggero vantaggio sui Cinque Stelle. A sinistra c’è Mdp che boicotta un’eventuale alleanza tra Pd e Angelino Alfano sul nome di un candidato «moderato» o civico. I giochi sono tutt’altro che conclusi. E il «rischio Grillo» è tutt’altro che sventato. Se a novembre dovesse concretizzarsi, confida un dirigente Pd, «partirebbe anche dal Colle un pressing fortissimo per cambiare la legge elettorale». Come? Togliendo il residuo premio di maggioranza, che in base alle regole attuali va alla lista che raggiunge il 40%, onde evitare che il M5s possa vincere da solo se per assurdo lo raggiungesse. Per tornare sostanzialmente a quel modello tedesco (proporzionale puro, sia pur con piccolo sbarramento) che il Colle aveva con discrezione benedetto quando Renzi lo propose. Se allora, però, il «patto» sul tedesco con Berlusconi e Grillo aveva (per Renzi) il vantaggio di anticipare la fine della legislatura, ora il ritorno al tedesco comporterebbe anche il suo allungamento fino all’ultima data utile per votare, a maggio, per dare tempo al Parlamento di votare la riforma. Del resto sono già in molti ad auspicare che premier e presidente della Repubblica si prendano tutto il tempo possibile prima di sciogliere le Camere e mandare il Paese al voto: lo chiede Mdp, che tramite Vasco Errani ha esplicitamente sollecitato Gentiloni ad arrivare fino alla data limite per lo scioglimento, il 15 marzo 2018. Lo sperano anche pezzi grossi del Pd come Dario Franceschini e Andrea Orlando, che vogliono strappare il premio alla coalizione, auspicato in nome di un fantomatico Ulivo anche da Pisapia, Prodi, Letta. Una compagnia di giro di cui Renzi diffida assai (e con qualche fondamento), e cui continuerà a dare una sola risposta: «Fare il premio alla coalizione vuol dire regalare la vittoria a Berlusconi, che è l’unico ad avere interesse». A rigor di logica è difficile dargli torto, e lo ammette anche un franceschiniano: «È vero, ma molto meglio che vinca Berlusconi piuttosto che Grillo». Sul tedesco, invece, Renzi non ha resistenze ideologiche: «Sono stato io a proporlo, mesi fa, e lo hanno fatto saltare in Parlamento». Ma il leader Pd sa bene che se lo riproponesse, si aprirebbe la sarabanda dei «cosiddetti ulivisti», Prodi in testa, in nome della difesa del maggioritario.
IL GIORNALE