Kim contro Kim
di VITTORIO ZUCCONI
La totale, irridente indifferenza del satrapo nordcoreano Kim alle minacce e alle lusinghe di Donald Trump, come alle sempre sdentitatissime risoluzione ONU, dimostra ancora una volta che il solo, vero nemico in grado di abbatterlo è lui stesso.
Con il lancio di un missile balistico che ha attraversato il cielo dell’Hokkaido, la grande isola nel nord del Giappone, che ha scatenato il secondo allarme aereo nella storia del dopoguerra, Kim Jong-un ha corso un rischio del quale neppure si è reso conto: se quell’ordigno, di dubbia affidabilità come tutto l’arsenale missilistico nordcoreano, si fosse spezzato in volo alla maniera degli Scud di Saddam Hussein e rottami fossero precipitati sulla popolazione dell’Hokkaido uccidendo sfortunati e casuali bersagli, il segnale di via per un’azione militare di rappresaglia militare sarebbe stato dato.
Ma è soltanto con un attacco e con vittime, casuali o deliberate, che il regime di Pyongyang si esporrebbe alla rappresaglia degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Giappone e Corea del Sud. La “Linea Rossa” che Kim sa di non potere attraversare, se non vuole suicidarsi, è l’aggressione, diretta o accidentale. In assenza, non c’è nulla che Trump possa fare, non ci sono operazione di forza preventiva che sarebbero giustificabili e come lo sa Kim, così sa lui. Siamo tornati a un classico paradosso degli anni della Guerra Fredda, quando i mostruosi arsenali di URSS e USA erano del tutto inutili nei conflitti locali, come dimostrarono gli americani sconfitti in Vietam e i russi in Afghanistan: la “Impotenza della Superpotenza”.
Attraverso i canali semiufficiali che tutti i governi usano e che i governi totalitari prediligono, Pechino ha fatto sapere a Washington che nessu attacco preventivo sarebbe accettabile per la Cina e che la sola strada aperta è quella della pressione economica e diplomatica. Ma quegli stessi canali hanno chiarito, e come lo hanno fatto a Washington hanno fatto certamente a Pyongyang che qualsiasi azione aggressiva nordcoreana lascerebbe Kim, la sua cricca e la sua forza armata completamete soli, in balia della immensa e schiacciante furia militare USA.
“Non c’è nessuna opzione militare praticabile” si era fatto sfuggire Steve Bannon, il ‘Rasputin’ ideologico della Casa Bianca cacciato poco dopo avere spifferato questa ovvia verità, non quando le armate di Kim hanno 10 mila bocche da fuocoi puntate sulla capitale Seul e pronnte a compiere una strage nella densissima metropoli del Sud.
Se Kim decide di suicidarsi e di trascinare con sè migliaia e migliaia di coreani, a Sud come a Nord di quel38esimo paralleloche segna la linea dell’armistizio – mai divenuto trattato di pace – da 60 anni deve soltanto colpire un bersaglio reale, come le basi americane, giapponesi o coreane, a portata dei suoi missili e firmerebbe il proprio certificato di morte.
Una guerra calda, che ormai porta inn sè la possibiblità di uno scontro nucleare nell’Asia Orientale dipende dall’istinto di sopravvivenza del più squilibrato dei protagonisti del dramma. E dalla speranza che uno di quei missili sparacchiati per intrattenere il piccolo despota non piombi, per errore o per guasto, su una città.
REP.IT