“Attenti ai robot: in Italia a rischio 3 milioni di posti”
E’ la domanda fatale di ogni rivoluzione industriale: quanti resteranno schiacciati dalle ruote della modernità? Agli albori della prima nessuno credeva nelle virtù dell’innovazione, poi ci si è accorti che la macchina a vapore avrebbe creato più posti di lavoro di quelli distrutti. Siamo dentro la quarta (secondo alcuni persino la quinta). quella dei robot, e oggi la storia sembra più insidiosa. Le statistiche dicono che non è così: tutto dipende da come si affronta il cambiamento. Il Club Ambrosetti ha fatto i conti partendo dalle premesse di una nota ricerca di due professori di Oxford, Carl Frey e Michael Osborne. Per il mercato del lavoro italiano non sarà una passeggiata: nei prossimi 15 anni verranno meno più di tre milioni di occupati nei settori tradizionali, fino a 4,3 nello scenario più pessimista. Ma è possibile crearne altrettanti in quelli innovativi.
Invertire la tendenza non è impossibile. Secondo la ricerca sarebbe sufficiente mettere in campo iniziative capaci di creare 42 mila posti all’anno nei prossimi cinque. Come? Qualcuno potrebbe obiettare che il Pil non si fa per legge, né l’occupazione può essere creata con le classiche ricette keynesiane. Manifattura, costruzioni e commercio sono i settori che dal 2008 ad oggi hanno perso più addetti: ciò significa che la trasformazione digitale è in atto da molti anni. Ma occorre spingere sui settori che oggi impiegano più di ogni altro: alta tecnologia, scienze della vita, ricerca di base. Lo studio dice che per ogni nuovo posto in un settore avanzato se ne creano altri 2,1 nell’indotto: quarantamila posti l’anno nei settori chiave sono tre milioni di occupati in 15 anni. Se si considera che dopo il Jobs Act sono nati ottocentomila posti, l’obiettivo è tutt’altro che difficile. Se lo Stato può avere un ruolo, la strada è quella tracciata con l’ultima legge di Stabilità: incentivi per gli acquisti di nuovi macchinari, crediti d’imposta per le start up innovative e la ricerca, tassazione agevolata per brevetti industriali e marchi. E poi istruzione, istruzione, istruzione.
La correlazione fra titolo di studio e rischio automazione parla chiaro: più la qualifica è bassa, più è alta la probabilità di restare disoccupati. Chi ha in tasca una specializzazione universitaria ha appena l’un per cento di probabilità di perdere il posto; al contrario, per chi non ha almeno una laurea il rischio sale al 17 per cento: si tratta di 17 milioni di italiani. E’ per questa ragione che il rischio di sostituzione sale all’aumentare dell’età: più si va avanti negli anni, più è probabile che il lavoratore occupato sia molto istruito e in alto nella scala gerarchica di un’azienda. Il futuro è per chi svolge mansioni complesse, con una forte componente intellettuale e non facilmente sostituibili dalle macchine. I settori che rischiano meno sono i servizi per la salute e la comunicazione. Il futuro del lavoro è nelle qualità umane, quelle che le macchine non potranno mai sostituire: creatività, innovazione, capacità di relazione. Non è un caso se i diplomati di conservatori e accademie di belle arti sono quelli che rischiano meno di ogni altro. Potrà mai un robot sostituire il tocco di un pittore, un pianista o un restauratore?
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