Quei leader politici e le riforme mancate

Perché in Italia il fronte delle riforme istituzionali non è mai riuscito finora ad essere maggioritario? Perché alla fine hanno vinto sempre gli altri, quelli che non volevano cambiare? Ciò è accaduto davvero — come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio del 22 agosto polemizzando con il sottoscritto — perché coloro che fin dagli anni 80 erano favorevoli alle riforme suddette e in un primo momento ne hanno anche appoggiato i vari proponenti (Craxi, poi Berlusconi, infine Renzi) ad un certo punto hanno invece disertato la battaglia, dissociandosi dai proponenti di cui sopra e dai loro progetti? Sicché ora, sempre secondo Ferrara, capita che gli stessi (tra cui per l’appunto sempre il sottoscritto) si ritrovino ancora una volta a invocare come se nulla fosse una riforma costituzionale con conseguente legge elettorale volta a rafforzare il ruolo e i poteri dell’esecutivo, cioè si ritrovano a chiedere esattamente quanto proprio loro hanno contribuito a varie riprese a fare fallire. Non era meglio pensarci prima — si chiede sarcastico Ferrara — e a suo tempo appoggiare fino in fondo i tentativi di cui sopra?

In verità, pur animato dal massimo spirito autocritico possibile non mi sembra convincente la tesi che la colpa del fatto che in Italia le riforme istituzionali non si sono fatte starebbe nel debole appoggio e in seguito nell’ostilità verso i suoi proponenti da parte dei «commentatori à la Galli della Loggia» (copyright Ferrara), dei «giornaloni» e magari degli onnipresenti poteri forti.

Non sarebbe più opportuno prendere in considerazione l’ipotesi che forse c’è stato qualche buon motivo se quell’appoggio è venuto meno? In realtà se da 30 anni quelle riforme falliscono è per una ragione assai semplice: perché i leader politici che ogni volta le sostengono non si rivelano all’altezza del compito che si prefiggono.

Le riforme istituzionali possono arrivare al traguardo per due vie. O dall’alto: perché sono condivise dalle élite, dalla classe dirigente del Paese (politica e non); o dal basso: perché la loro esigenza è sentita in modo fortissimo dall’opinione pubblica, magari in contrasto aperto con le èlite stesse. Nel caso nostro, in tema di riforme istituzionali, quasi tutta l’élite italiana è arcignamente arroccata su posizioni ultraconservatrici. In teoria e a chiacchiere non lo sarebbero i ceti produttivi e chi li rappresenta, la Confindustria per esempio. Ma in costoro sono troppo forti la miseria culturale e il legame organico che intrattengono con l’intero apparato politico-amministrativo. Da qui la loro congenita incapacità di articolare un discorso proprio quale che sia, e tanto più di portarlo avanti con coerenza e decisione. E sempre da qui, di conseguenza, la loro perenne subalternità al discorso pubblico ufficiale, dove è tradizionalmente fortissimo il punto di vista di una sinistra la quale dell’intangibilità istituzionale ha fatto da tempo la sua insegna di grande efficacia intimidatrice quanto politicamente suicida.

Preclusa la via dall’alto non resta che quella dal basso. L’opinione pubblica italiana, benché in parte non avverta l’urgenza delle riforme in questione, è tuttavia orientata o comunque orientabile senza troppe difficoltà al cambiamento. Essa sente l’opportunità di un governo stabile, di un comando politico più efficace e diretto, di minori passaggi politico-burocratici. Ma perché essa sostenga senza riserve l’idea di conseguenti riforme istituzionali e di un’adeguata legge elettorale di tipo maggioritario è necessario qualcosa di più: deve essere convinta, deve fidarsi. L’opinione pubblica, cioè, deve farsi l’idea che le riforme proposte migliorino effettivamente il quadro esistente. Soprattutto deve convincersi che chi le propone, in ragione della propria personalità, del proprio profilo politico, del modo come argomenta e motiva le ragioni delle riforme in campo, merita la sua fiducia. Deve cioè credere che quelle riforme non sono un espediente di bassa cucina per far fuori l’avversario bensì che esse sono davvero concepite in vista di un interesse collettivo, non già per costruire o rafforzare un qualche potere personale o di partito.

Un’impresa non facile. Per convincere l’opinione pubblica in questo senso ci vuole infatti un leader politico all’altezza. Dai modi rassicuranti, che appaia animato da un’autentica convinzione e devoto all’interesse generale, capace di una retorica alta e inclusiva, intellettualmente generoso nei confronti delle opinioni contrarie. Non è la descrizione di una specie di Forrest Gump della politica, di un Chance il giardiniere di palazzo Chigi, come forse è portato a pensare Giuliano Ferrara: è la descrizione di ciò che deve essere un autentico leader democratico. La sola razza politica che riesce a conseguire obiettivi importanti come quelli di cui stiamo discutendo.

Ma appartenevano forse a una tale razza i Craxi, i Berlusconi, i Renzi? A me pare di no. Craxi per esempio possedeva una fortissima personalità politica ma racchiusa in un bozzolo di diffidenza e di incomunicabilità che di certo non ne fecero mai un capo popolare; senza contare che ad un certo punto, causa e vittima della pessima fama(meritata) del suo partito, egli divenne l’uomo politico più detestato del Paese. Silvio Berlusconi, dal canto suo, si è sempre mostrato incapace di uscire dal ruolo di capopartito della Destra, per giunta interpretato di preferenza (almeno fino ad oggi) con toni acidi e rancorosi d’inutile contrapposizione verso chiunque non fosse d’accordo con lui, il che gli guadagnò una valanga di no (oltre il 61 per cento) nel referendum del 2006 sul progetto di riforma costituzionale da lui proposto. E infine Renzi. C’è ancora bisogno di dilungarsi sugli errori innumerevoli che egli ha commesso nel preparare, presentare e sostenere la campagna referendaria del dicembre 2016? Davvero si può pensare che qualche editoriale giornalistico, qualche chiacchiera di talk show in più a suo favore sarebbero stati in grado di contrastare la vasta ondata di sincera antipatia e di opposizione che l’allora primo ministro riuscì bravamente a suscitare contro di sé? Non essendo riuscito ad avere dietro a ranghi serrati neppure il proprio partito?

La verità è che in Italia, negli ultimi trent’anni, nessuno dei tre ideatori o proponenti delle riforme istituzionali -né Craxi, né Berlusconi, né Renzi – è stato minimamente in grado di risultare davvero convincente, tanto meno di avvicinarsi a portare dalla propria parte la maggioranza dell’opinione pubblica ( e perché i cosiddetti commentatori avrebbero dovuto fare eccezione? Anche chi, come il sottoscritto, ha pure votato sì al referendum del 4 dicembre?). Non ci sono riusciti per motivi evidenti: per la loro scarsa capacità d’intendere e padroneggiare l’arena della discussione democratica, per il loro carattere umano irresistibilmente portato alla sopravvalutazione di sé e al disprezzo degli avversari, da ultimo, ma soprattutto, per l’immagine di sé data in precedenza. Nella politica come nella storia la personalità conta, eccome: forse è la sola cosa che conti davvero.

CORRIERE.IT

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