Impariamo a maneggiare i criptosoldi

Federico Taddia

«Ti ho lasciato dieci euro di paghetta sul tavolo». «Uffa papà, ma non puoi fare con i bitcoin come fanno tutti gli altri per coniugare modernità ed efficienza?». No, in questo caso un asteroide di pubblicitaria citazione non servirebbe a nulla: è l’evoluzione bellezza e in questo fantadialogo estrapolato da un futuro assai prossimo, c’è un trailer della quotidianità che ci aspetta. Bye bye salvadanaio a forma di maialino, la busta con qualche banconota regalata dalla nonna per il compleanno o il borsellino in cui far risuonare le monete risparmiate. Di monetine ne servirà solo una: quella necessaria a prendere il carrello al supermercato. Il futuro, già presente, è quello delle criptovalute: soldi che non sono soldi. O meglio, soldi che sono soldi ma diversi dai soldi che conosciamo.

Nell’immaginario si posizionano tra le banconote del Monopoli e i braccialetti con le palline colorate usati nei villaggi turistici per pagare le consumazioni. Con una differenza in più: qui non c’è nulla di tangibile, non c’è nulla da nascondere sotto il materasso. I soldi ci sono sì, ma si toccano solo tramite un touchscreen. Piacciono i bitcoin, interessano, allargano la loro diffusione e i numeri parlano di un successo, mondiale, crescente. Piacciono agli smanettoni, a chi crede alla suprema democrazia della rete, a chi non si fida delle banche e a chi gioca con la finanza.

Sono un’alternativa alla struttura ufficiale, dove la somma dei deboli poteri singoli diventa, o dovrebbe diventare, barriera nei confronti dei poteri forti. Per non essere più schiavi del sistema – quello cattivo e consolidato – ma diventare protagonisti di un altro sistema, ritenuto più puro e conveniente. Controllo reciproco e anonimato. Dove ogni passaggio viene tracciato, anche se di fatto non si conosce il tracciatore. Con gli infiniti rischi ben prevedibili e che già hanno fatto alzare più di un campanello di allarme.

 

Criptovalute. Un nome scomodo. Sospettoso. Non inclusivo. Quindi, paradossalmente, non democratico. Se c’è qualcosa di criptato servono gli strumenti per decodificare, decifrare, leggere. Ecco, il cuore dell’innovazione sta proprio qui, nell’avere capacità di comprensione. E l’urgenza, oggi e non domani, sui bitcoin, sull’intreccio tra reale e virtuale, sull’intelligenza artificiale e sulla realtà aumentata, e su tutto quello che stravolgerà le nostre vite, è quella di essere alfabetizzati. Alfabetizzazione tecnologica e economica. Per non subire il cambiamento, ma gestirlo. Partendo dalla scuola, dai mezzi di comunicazione, da corsi di formazione per ogni età. Le rivoluzioni non si fanno con le chiacchiere da social, ma – direbbe Don Milani – «imparando una parola in più di chi ci comanda». Studiare l’economia, apprendere le regole della finanza, far nostro un glossario spesso ostico e repellente, significa proteggersi, giocare in un campo comune, istituire relazioni con gli addetti ai lavori basate su una fiducia non cieca ma lucida. I bitcoin sono un paradigma perfetto: toccano le nostre tasche. Anzi, probabilmente svuoteranno parte delle nostre tasche per riempire spazi di memoria che diventeranno i nostri depositi personali. I nostri figli e i figli dei loro figli useranno strumenti per noi solo lontanamente immaginabili. Faranno la spesa, probabilmente, pagando con un colpo di iride, con qualche microchip sottopelle o sfiorando con un dito un lettore. Potendo anche permettersi di scegliere qualche moneta usare. Non sta a noi insegnar loro come utilizzare questi device. È nostro dovere dar loro la possibilità di essere consapevoli. Sta a noi adulti assicurarci che siano pronti a tutto questo. E, mentre lo facciamo per loro, magari ci capiamo qualcosa pure noi.

LA STAMPA

 

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