Dove il lavoro non riparte, 200mila posti a rischio in 166 fabbriche

di MARCO PATUCCHI

ROMA – Sono 166 imprese con un totale di oltre 190mila lavoratori. Due numeri per misurare la “temperatura” di un autunno che si preannuncia caldo. E anche le coordinate della mappa delle crisi industriali italiane, emergenze che intaccano il quadro della ripresa economica tratteggiato dagli ultimi dati su Pil e mercato del lavoro. Non a caso il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-recessione, certificato in questi giorni dall’Istat, esclude la fascia di età tra i 35 e i 49 anni (-116mila posti in un anno), ossia quella più legata ai processi di ristrutturazione aziendale.
Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, se non fosse per un “dettaglio” che pesa (e allarma) come un macigno: perché di fronte alle crisi industriali ci presentiamo con un armamentario in scala ridotta degli ammortizzatori sociali, tra strumenti ormai cancellati e coperture tagliate dalle riforme targate Jobs Act. E così, per la prima volta, si materializza lo spettro dei licenziamenti tout court.
Uno scenario inedito che preoccupa i sindacati e che non viene sottovalutato anche all’interno del governo nella prospettiva di possibili tensioni sociali. Esaurite mobilità e cassa integrazione in deroga, ridotta la durata di cassa ordinaria e straordinaria, il dominus sarà la Naspi (l’indennità mensile di disoccupazione), uno strumento che recide il cordone ombelicale tra la persona e l’azienda affidando al mercato e alla politica attiva del lavoro, fin qui deficitaria, le speranze di recupero.

Scorrere il documento (aggiornato al 31 agosto) sui “Tavoli di confronto aperti presso il ministero dello Sviluppo Economico” – arrivati, appunto, a quota 166 – è come viaggiare in lungo e in largo attraverso il Paese reale, incrociando la stragrande maggioranza dei settori produttivi: dal Piemonte alla Sicilia, dalla Lombardia alla Puglia; dalla siderurgia ai call center, dall’edilizia alla chimica. Le fabbriche di multinazionali come Bridgestone, Ericsson, HP Hewlet Pakard, Whirlpool, Nokia…nomi storici dell’industria nazionale come Cementir, Ilva, Burgo, Carraro, Ferretti…Marchi familiari per tutti gli italiani come Perugina, Tuodì, Mercatone Uno, Ideal Standard, Alitalia…Crisi più o meno gravi, più o meno recuperabili: i 190mila lavoratori compongono, naturalmente, il perimetro occupazionale delle 166 aziende in difficoltà, non gli esuberi e i posti realmente a rischio che, comunque, molto spesso rappresentano fette consistenti della forza lavoro delle singole imprese. In ogni caso, emergenze che coinvolgono intere comunità ed economie locali, spesso scomparse dai radar dell’opinione pubblica nazionale. La stragrande maggioranza (74) delle aziende sedute al tavolo del ministero ha più di 500 dipendenti, seguono quelle con 251-500 addetti (38), poi le 24 con 151-250 lavoratori e le sedici con 100-150, infine le 14 con meno di 100 lavoratori.

“E a questi numeri vanno aggiunti quelli dell’indotto e quelli delle crisi dei tavoli regionali – dice Maurizio Landini, una vita nella Fiom che ha guidato per sei anni, e ora entrato nella segretaria della Cgil con la delega sull’industria -. C’è il rischio che l’emergenza si saldi ad altre tensioni sociali come, ad esempio, quella dell’immigrazione. Servirà una mobilitazione, insieme a Cisl e Uil, ma sarà una battaglia dura per il sindacato, perché da un lato attraversiamo una evidente crisi di rappresentanza e, dall’altro, avendo perso lo strumento degli ammortizzatori sociali non ci resta che chiedere modifiche legislative. Opzione davvero complicata”. Anche Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, non nasconde l’allarme: “Prima di tutto perché siamo passati da ammortizzatori sociali “in costanza di rapporto di lavoro” a strumenti che intervengono solo dopo il licenziamento. Inoltre – aggiunge –  c’è una diversa dinamica delle crisi aziendali: prima erano legate solo all’andamento dell’economia mentre adesso le ristrutturazioni, anche drastiche, spuntano in settori non colpiti dalla crisi o addirittura all’interno di aziende che fanno utili, come dimostrano i casi di Sky e Perugina. Qualcuno l’ha definita selezione darwiniana della globalizzazione. Insomma, dobbiamo abituarci all’idea che anche con un Pil in crescita ci saranno ristrutturazioni dolorose e, dunque, bisognerà fare una seria riflessione su come il sistema di protezione sociale segua certe dinamiche”.

Nel governo, e in particolare tra i tecnici che seguono direttamente le vertenze, si cerca una risposta all’emergenza e c’è chi guarda verso Bari dove in queste settimane sta andando in scena una vicenda che potrebbe fare da laboratorio anche per altre crisi aziendali. Il gruppo tedesco Bosch (componentistica auto), che lì ha uno stabilimento con 1900 operai, ha prospettato 500 esuberi a causa del calo degli ordinativi di pompe diesel dopo gli scandali Volkswagen: la proposta avanzata dal management ai sindacati per scongiurare i tagli è quella di un contratto “ponte” (in attesa di una eventuale ripresa del business) che nell’arco di cinque anni ridurrebbe progressivamente le ore settimanali di lavoro da 40 a 30, con una relativa sforbiciata degli stipendi pari, secondo le stime dei rappresentanti dei lavoratori, al 25% mensile. Quasi una provocazione per Cgil, Cisl e Uil che l’hanno rispedita al mittente perché, oltre a determinare pesanti sacrifici economici degli operai, rappresenterebbe un pericoloso precedente che smonta gli istituti retributivi di base. Un modello da non scartare completamente, invece, secondo i tecnici del governo. Comunque la si voglia mettere, il chiaro segnale dello sconfinamento nella terra di nessuno delle crisi industriali senza rete.

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