Bce manterrà i tassi a zero fino alla fine del 2018
Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha intenzione di tenere i tassi bassi per più di un anno
Non è la prima volta che accade, e probabilmente non sarà l’ultima. Ieri nel palazzo di vetro e cemento adagiato sulle rive del Reno Mario Draghi e Jens Weidmann hanno sancito l’intesa che accompagnerà la Banca centrale europea fuori dal più importante programma di stimolo monetario nella storia della moneta unica: i tassi di interesse resteranno a zero ancora per un anno. Come era inevitabile che accadesse, dopo anni di difficile convivenza per un piano maldigerito dalla Bundesbank, ora i due grandi rivali dell’euro – l’italiano e il tedesco – si trovano uniti in una sfida che nessuno può permettersi di perdere.
Francoforte deve tenere insieme due esigenze divergenti: da un lato evitare un rafforzamento eccessivo dell’euro nei confronti del dollaro, dall’altra non può deprimere la crescita. Se il piano durasse troppo a lungo si corre il rischio di alimentare bolle speculative, mentre un’uscita troppo rapida potrebbe innervosire i mercati e spingere all’insù i tassi prima del tempo: un errore che 4 anni fa costò caro alla Federal Reserve.
L’incertezza attorno alle mosse di Trump, il ritardo nel mettere a punto l’annunciato piano di tagli fiscali costringe al massimo della prudenza possibile: se la Casa Bianca fallirà, c’è il timore che The Donald spinga la Fed ad una svalutazione competitiva del dollaro.
Draghi, Weidmann e l’intero consiglio dei governatori sa che il percorso europeo deve essere chiaro, sufficientemente lento per essere digerito dai mercati e dotato della flessibilità necessaria a gestire eventuali contrattempi. E’ per questo che nella conferenza stampa di oggi il governatore italiano darà solo qualche indizio delle mosse future. L’accordo raggiunto in Consiglio prevede di svelare la exit strategy a fine ottobre, un mese dopo le elezioni tedesche del 24 settembre. La Bundesbank e i suoi alleati nordici hanno chiesto che il piano abbia fine entro un anno da oggi. Non dovrà durare l’interno 2018, al massimo dovrà avere fine in autunno. Fino al 31 dicembre di quest’anno la Bce è autorizzata ad acquistare 60 miliardi di euro di titoli al mese.
Il cosiddetto “tapering” – ovvero la graduale riduzione nell’acquisto di obbligazioni pubbliche e private – inizierà quasi certamente a gennaio per terminare nei nove mesi successivi. Sulle modalità di uscita fra i diciannove governatori della moneta unica c’è ancora dibattito. C’è chi propende per farlo in due tappe (40 miliardi da gennaio, 20 da giugno) e chi punta ad un percorso più lento, riducendo l’ammontare di dieci miliardi in dieci miliardi. Ovviamente i Paesi più favorevoli all’uscita lenta sono quelli che hanno il debito più alto e costretti a spendere di più per farselo finanziare: Italia, Spagna, Portogallo su tutti. La novità interessante per chi ha un mutuo da pagare è però un’altra: la exit strategy fin qui delineata non prevede nel 2018 alcun aumento dei tassi di interesse.
Né a quelli che regolano il costo dei finanziamenti, né a quello specifico sui depositi, oggi inchiodato a -0,4 per cento. Per i banchieri europei non è una buona notizia: sia la Francia che l’Olanda hanno a lungo tentato di convincere Draghi a rivedere una decisione che schiaccia i margini degli istituti ma li spinge a finanziare le imprese piuttosto che tenere nei forzieri una liquidità che non rende nulla. Nonostante i malumori, la Bundesbank è d’accordo con Draghi ad attendere.
Che il piano Draghi debba avere fine è nelle cose: in questi due anni e mezzo Francoforte ha dovuto fare gli acquisti tenendo conto della regola del “capital key”, ovvero in proporzione alla quota di partecipazione di ciascun Paese nel capitale della Banca centrale. L’azionista più importante è la Germania, e per questo i Bund stanno iniziando a scarseggiare. Ma soprattutto occorre evitare il rischio di far salire troppo i prezzi, tanto in Borsa quanto nel mercato immobiliare.
Il messaggio del numero uno di Deutsche Bank John Cryan dimostra che il momento delle decisioni è vicino: «Benché la politica ultraespansiva ci abbia fatto uscire dalla crisi, è arrivato il momento di cambiare rotta. I prezzi vanno in una sola direzione, e si stanno formando bolle dove non ci saremmo aspettati». Poco importa – dice Cryan – se l’euro vale più del previsto. Negli uffici studi, così come alla Bundesbank, sono convinti che il rafforzamento della moneta unica sia solo in parte legato alle aspettative di un aumento del costo del denaro, semmai è il segno della forza dell’economia continentale. Gli economisti sono unanimi nel considerare fisiologica la moneta unica a 1,25 dollari: l’allarme scatterebbe solo oltre quella soglia. Ecco perché l’uscita dalla lunga fase della moneta a costo zero avverrà con estrema gradualità. Lo fa capire perfino il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble, uno di quelli che il piano Draghi non l’ha mai amato: «Tutti sperano ci sia una normalizzazione. Ci siamo più vicini di quanto non pensassero i pessimisti un anno fa». Vicini ma non troppo.
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