Vittorio Feltri: Giulio Andreotti-Belzebù, ero il tuo nemico più sincero
di VittorioFeltri
Giulio Andreotti è morto da qualche anno ed è più facile parlarne bene che male. Ora sappiamo che sta per uscire un suo romanzo, trovato in un cassetto dalla figlia Serena, e siamo curiosi di leggerlo convinti che sarà interessante, mai banale. Verrà pubblicato dalla Nave di Teseo, diretta da Elisabetta Sgarbi, con questo titolo: Il buono cattivo. Tema: il divorzio che nel 1974 fu al centro di un referendum perso dai cattolici, tanto è che da allora i matrimoni si sciolgono come neve al sole.
Giudicare un testo prima che sia dato alle stampe è un compito superiore alle mie forze. Posso solo azzardare una ipotesi: Andreotti nelle sue pagine segrete fino a ieri non racconterà soltanto le polemiche dell’epoca sulla delicata questione, ma anche il costume italiano influenzato dal Sessantotto con tutta la sua carica pseudorivoluzionaria.
A novembre il volume sarà in vendita e avrò modo di valutarlo con cognizione di causa. Per adesso mi sia consentito discutere delle capacità dell’autore di descrivere e interpretare la realtà del nostro paese. Mi sento autorizzato a farlo perché egli è stato a lungo un collaboratore importante, ovviamente, dell’Europeo che ho diretto dal 1989 al 1992. Teneva un rubrica settimanale, Visti da vicino, in cui commentava gli accadimenti più significativi del momento. Gli articoli firmati da lui erano assai seguiti e contribuivano a vivacizzare il dibattito sull’attualità.
Quando esordii al vertice della autorevole rivista, Giulio mi telefonò. Due chiacchiere formali. Va da sé che non ebbi mai da obiettare sui contenuti dei suoi pezzi, per altro utili allo scopo di incrementare le vendite, ciò che mi stava a cuore. Un giorno però ci fu un incidente. In un nostro servizio troppo disinvolto, rievocammo una vicenda di terrorismo che conteneva varie inesattezze, alcune riguardanti Andreotti, eterno presidente del Consiglio. Il quale si indispettì e mi chiese, tramite il presidente della Rizzoli, Giorgio Fattori, di recarmi a Roma, a Palazzo Chigi, per un chiarimento.
Con le pulsazioni cardiache a mille, mi presentai nella anticamera del suo ufficio. Dopo tre minuti, si aprì una porta e lui si affacciò invitandomi a entrare. Sospettavo una imminente lavata di capo, invece mi fece accomodare su una poltroncina accanto alla sua scrivania e mi coprì di complimenti e cortesie. Ero piacevolmente sconvolto. Mi attendevo rimbrotti e lamentele, ricevetti solo attenzioni e premure.
Non capivo più un accidenti. Si informò sull’andamento del giornale, volle notizie sulla mia famiglia, insomma mi gratificò e infine cortesemente mi congedò. Da allora non ebbi più l’ardire di attaccarlo frontalmente, benché pensassi che egli fosse davvero Belzebù, cioè la figura emblematica della prima Repubblica destinata a saltare per aria. Mi pareva che fosse il democristiano più marcio e dannoso della galassia scudocrociata, indistruttibile, ostile al cambiamento agognato dagli italiani. In effetti era un periodo, quello cui mi riferisco, di sommovimenti sociali e politici. Trascorre poco meno di un lustro, personalmente passo alla direzione del Giornale, sostituendo Indro Montanelli, dopo un biennio all’Indipendente, e Andreotti con mio grande stupore viene perseguito per reati assurdi, tra i quali l’omicidio Pecorelli e i rapporti con la mafia. Accuse dell’altro mondo che lo costringono a difendersi con l’avvocato campione Coppi e la campionessa Bongiorno. Mesi e mesi e ancora mesi di battaglie tribunalizie. Testimonianze alcoliche e psichiatriche. Bugie incredibili.
Sto dalla parte di Giulio ma non lo confido a nessuno. Ricevo una telefonata da Paolo Cirino Pomicino, che mi dice: Andreotti desidera fare quattro chiacchiere con te. Fissiamo un appuntamento a casa del suddetto Pomicino, a Roma, via Appia antica. Ceniamo ad un tavolo rotondo. Siamo in tre. I tre dell’Ave Maria. Giulio con toni sobri mi espone le sue grane giudiziarie, che per altro conoscevo. Pomicino caldeggia un mio intervento, una sorta di campagna giornalistica in appoggio allo statista in disgrazia. Dato che le battaglie perse mi attirano più dei vizi, avendoli tutti, accetto di occuparmi del divo Giulio piombato negli inferi delle Procure. Al quale Giulio però pongo una domanda mica tanto impertinente: scusi, presidente, perché per questa storia tanto delicata si rivolge proprio a me? Risposta gelida: mi fido maggiormente di un nemico sincero che di un amico falso. Successivamente incaricai Renato Farina di seguire le tribolazioni inflitte ad Andreotti, che si conclusero con la sua assoluzione, nonostante gli strali del quotidiano la Repubblica.
Brindai e Giulio non lo incontrai più. Tra nemici ci si intende anche a distanza. Il dì della sua morte provai una fitta retrosternale. Ma non era un infarto.
LIBERO.IT