Le (piccole) riforme che servono per la crescita

La litania delle riforme, ma anche dei mutamenti culturali, che sarebbero necessari per elevare il potenziale di crescita della nostra economia è nota, e a questo punto anche un po’ noiosa. Una Pubblica amministrazione preoccupata soprattutto di difendere i propri privilegi, giudici che dopo l’udienza finale di una causa civile impiegano anche due anni per scrivere la sentenza, la grande dispersione della qualità delle scuole (alcune ottime, altre incapaci di insegnare alcunché, soprattutto nel triennio spesso sprecato delle medie), la scomparsa delle scuole tecniche di specializzazione che invece sono una delle spiegazioni del successo dell’industria tedesca, lo scarso investimento in istruzione scientifica o in discipline come agraria, uno dei settori di maggior sviluppo della nostra economia: lo scorso anno quarantaseimila ragazzi si sono iscritti a facoltà umanistiche, solo pochi meno di quanti si sono iscritti a Ingegneria. A Scienze agrarie solo quattromila, ma ben tredicimila a scienze della comunicazione. Forse c’entra anche la scelta di molti nostri imprenditori, piccoli e grandi, di affidare la gestione dell’azienda al figlio, qualunque siano le sue capacità, anziché ad un manager esterno scelto in base alle sue competenze.

Negli anni recenti qualche passo avanti è stato fatto. Certamente nel mercato del lavoro, con il Jobs act del governo Renzi. E nell’adeguamento delle regole previdenziali all’allungamento dell’età di vita, grazie alla ministra Fornero. Un passo che oggi però rischia di essere cancellato dalla pressione dei sindacati, ormai diventati la lobby dei sessantenni. Nulla invece su scuola e università, quasi nulla sulla concorrenza e soprattutto nulla sulla Pubblica amministrazione. Qui l’errore è stato pensare che ciò che non funziona sia lo «Stato». Non esiste uno «Stato», entità indistinta, che non funziona. Esistono individui, impiegati, funzionari, dirigenti pubblici, che personificando lo Stato e non facendo il loro dovere (nonostante i molti diligenti) non lo fanno funzionare. E con questi, soprattutto i dirigenti di rango più elevato, di severità se n’è vista davvero poca. Illudersi, come ha pensato la ministra Madia, che una riforma possa renderli magicamente responsabili del proprio operato è da ingenui. Questi mandarini poi — gli stessi che la settimana scorsa hanno giudicato illegali i test di ammissione all’Università Statale di Milano — ci hanno messo del loro facendo saltare, attraverso le sentenze del Consiglio di Stato, qualunque norma rischiasse di sottoporli al controllo della politica. Sì, della politica: di che altro se no? Le anime belle che celebrano l’indipendenza della burocrazia scordano che i cittadini eleggono politici, non burocrati a rappresentarli. E che sostituire un politico è certo più facile che sostituire un burocrate.

È comprensibile lasciarsi sopraffare dallo sconforto. Eppure una via diversa è possibile. E richiede uno sforzo infinitamente minore rispetto all’obiettivo di «Riformare l’Italia». Si tratta di rendere possibili piccole riallocazioni dell’attività economica da settori meno efficienti ad altri più efficienti, soprattutto dal settore pubblico alle imprese private. Numerosi economisti, negli anni recenti, hanno cercato di quantificare i benefici di queste riallocazioni. Evidentemente, tanto peggiore è l’allocazione da cui si parte, tanto maggiori sono i benefici di anche piccole riallocazioni. Immaginate che il prossimo anno i cittadini romani, chiamati a votare sul referendum per il quale quest’estate i radicali hanno raccolto trentatremila firme, decidano che i trasporti nella Capitale non possano più essere gestiti dall’Atac, ma debbano essere messi all’asta. Supponete che l’asta la vinca Marchionne. Di quanto migliorerebbe la vita dei romani e la loro produttività con un sistema di trasporti pubblici meno simile a quello di Karachi?

Si dirà: chiudere l’Atac è forse anche più difficile che cambiare l’età della pensione. Forse è vero, ma non è sempre così. Il problema è che negli ultimi vent’anni l’allocazione delle nostre risorse è molto peggiorata. Sara Calligaris, Massimo Del Gatto, Gianmarco Ottaviano e Fabiano Schivardi (A study on resource misallocation in Italy, 2016) mostrano che negli ultimi vent’anni la stagnazione dell’economia italiana è stata accompagnata da un progressivo peggioramento nell’allocazione del capitale e del lavoro. Se tale allocazione ritornasse al livello di vent’anni fa, la produttività sarebbe del 18% più alta nel settore manifatturiero e addirittura del 67% maggiore nel settore dei servizi, un miglioramento sbalorditivo.

La cattiva allocazione delle nostre risorse ha due spiegazioni principali. Da un lato il fatto che molte imprese inefficienti non chiudono e continuano ad utilizzare capitale e lavoro che sarebbero più produttivi se impiegati altrove. I motivi sono in parte legislativi: norme che rendono difficile ristrutturare un’azienda, procedure di liquidazione farraginose che, nel caso di un fallimento, non consentono la rapida riallocazione del capitale in altre attività. In parte sono conseguenza di un sistema bancario che tiene in vita per anni imprese decotte per evitare di iscrivere a bilancio la perdita sul credito. In parte una legislazione che continua a proteggere più i posti di lavoro, indipendentemente dalla loro produttività, che i lavoratori.

La seconda spiegazione è la proprietà pubblica. Francesco Lippi e Fabiano Schivardi (Corporate control and executive selection, 2010) analizzando un campione rappresentativo di 1200 imprese italiane con più di 50 addetti, trovano che le imprese a controllo pubblico (statale o locale) sono, a parità di settore di attività, significativamente meno produttive delle corrispondenti imprese private. Questo risultato dipende soprattutto dal fatto che la proprietà pubblica non seleziona i manager sulla base della competenza, ma della fedeltà. Per la verità ciò è in parte vero anche nelle imprese a controllo familiare i cui dirigenti sono in media il 17% meno efficienti dei manager di aziende equivalenti che sono parte di un grande gruppo industriale. Anche qui (sebbene non necessariamente in tutti i casi) l’apertura del capitale e il trasferimento del controllo dalla famiglia al mercato aumenterebbero la produttività.

La conclusione è che forse un programma di governo dovrebbe lasciar da parte le «grandi riforme» e concentrarsi invece su piccole correzioni delle norme che, consentendo una migliore allocazione delle risorse, potrebbero avere effetti più importanti e soprattutto più certi. Il referendum dei radicali — un provvedimento di due righe che smonta la proprietà pubblica delle aziende di trasporto locale — è un ottimo esempio. Ma anche interventi mirati sulle norme del codice civile che regolano la liquidazione di un’azienda. Nella scuola, anziché l’ennesima «grande riforma» si potrebbe sperimentare, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, ma anche della Svezia e di altri Paesi, qualche charter school, non scuole private ma istituti (sia di istruzione secondaria che professionale) che godono di particolare autonomia, soggetti ad un minor numero di regole, leggi e vincoli statutari e legati a un sistema di finanziamento misto al quale contribuiscono fondi pubblici e privati. Non ne servono mille. Per diffondere il miglioramento ne basterebbero due o tre per regione.

CORRIERE.IT

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