Ius soli, la politica senza autonomia
di EZIO MAURO
Dunque la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra.
Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante.
Ci sono certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento.
Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza.
Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica.
Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba.
Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa.
Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti.
Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.
C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.
È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo.
La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi.
Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa.
REP.IT