Un messaggio religioso che è diventato politico

Può il messaggio cristiano, oggi in Occidente, prestarsi come un tempo ad una qualche forma di specifica mediazione politica? Cioè può quel messaggio essere ancora tradotto in indicazioni praticabili dalla politica in una società come la nostra? E in tal modo, per esempio, dare luogo ad uno specifico impegno politico dei cattolici?

La risposta va cercata nei nuovi indirizzi pastorali che non senza forti discussioni al suo interno vedono oggi impegnata la Chiesa cattolica. Indirizzi che sono forse la più eloquente testimonianza di quella nuova epoca storica che si sta aprendo e che agli occhi della Chiesa (e non solo dei suoi) si caratterizza per un vero e proprio terremoto dei rapporti di forza: vale a dire la fine dell’egemonia sul processo storico mondiale da parte sia dell’area euro-atlantica e forse, almeno tendenzialmente, da parte addirittura dell’intero emisfero settentrionale.

Ha certamente a che fare con questa visione la scelta della Chiesa — voluta con forza da papa Francesco — di assumere come direttiva cardine ed esclusiva per la propria presenza sociale il comandamento della «misericordia»: deponendo con ciò l’ipotesi di ogni diverso ruolo propriamente politico. Il che in qualche modo appare peraltro come la logica conclusione di quel processo iniziato da tempo, che dapprima ha visto il rifiuto di qualsiasi collateralismo (tipo quello che una volta caratterizzava il rapporto tra la Chiesa e la Democrazia Cristiana), e in seguito l’eguale rifiuto di far svolgere alla religione cristiana la parte di una «religione civile».

La parte, cioè, per dirla con Enzo Bianchi, di «intonaco per il muro cadente dell’Occidente, percepito come inerente al Cristianesimo». Al Cristianesimo — a quello cattolico in specie — inerisce il mondo, non certo l’Occidente.

Tutto porta dunque a concludere che alla domanda iniziale la risposta sia negativa: in questa parte del pianeta non sembra esserci più spazio alcuno per una specifica mediazione politica del messaggio cristiano e per uno specifico impegno politico dei cattolici.

Le cose non appaiono così semplici, però, se si considera il modo in cui la Chiesa cattolica, proiettandosi sulla scena mondiale, intende concretamente il comandamento della misericordia. Nella prassi e nel discorso quotidiano tale comandamento, come è noto, viene tradotto nella tematica dei «diritti umani»; significa i «diritti umani»: sicché questa in pratica è la sola presenza «politica» ( beninteso fra virgolette) che oggi la Chiesa sembra volersi concedere. Ora, tuttavia, proprio rivestendosi della tematica dei «diritti umani», la presenza della Chiesa, lungi dal manifestarsi con contenuti propri ed esclusivi riferibili a lei specificamente, si sovrappone ampiamente però ad altre presenze organizzative, ideali e politiche, che nulla hanno a che fare con la sua tradizione. A cominciare ovviamente dalla presenza delle grandi agenzie internazionali come l’Onu o la Fao le quali trovano per l’appunto nei «diritti umani» un loro ambito e un loro presupposto decisivi. Un’analoga ampia sovrapposizione esiste poi rispetto a componenti per così dire laico-progressiste proprie dell’universo ideologico-politico dei Paesi occidentali: componenti che anch’esse nulla hanno a che fare specificamente con la tradizione cattolica. Tra l’altro con una particolarità di non poco conto: e cioè che sempre più spesso tali componenti annoverano tra i «diritti umani», e rivendicano come tali, un certo numero di diritti — riguardanti ad esempio gli stili di vita sessuali, i rapporti matrimoniali, il fine vita, la genitorialità artificiale o quella medicalmente assistita — che di certo sono estranei a qualunque prospettiva condivisa o prevedibilmente condivisibile dalla Chiesa di Roma.

Non basta. Sempre nominalmente infatti (ma i nomi non sono mai frutto del caso) la tematica dei «diritti umani» — stavolta nella sua versione laicissima se non laicista dell’«umanitarismo» — è pure quella che oggi anima la straripante presenza pubblica di alcune ricchissime e influentissime figure di «filantropi mondialisti» — non saprei come altro chiamarli: tipo Soros o Zuckerberg o Bezos — ormai assurti al rango di veri e propri profeti mediatici: anch’essi non solo estranei ma senz’altro ostili al cristianesimo cattolico.

Ci si trova di fronte, insomma, a una triplice sovrapposizione tanto più potenziale fonte di equivoci in quanto molto spesso i diritti umani sembrano essere intesi dalla Chiesa con una radicalità che non ammette deroghe né compromessi. O comunque con una estrema varietà di toni che non contribuisce certo alla chiarezza.

Resta il fatto che per un paradosso solo apparente, proprio la radicalità che spesso nell’ambito della Chiesa accompagna il discorso dei «diritti umani» contribuisce — starei per dire quasi naturalmente — non solo a rendere quanto mai «politicamente sensibile» il messaggio religioso che si riveste del discorso ora detto, ma ancora di più: a collocarlo di fatto nel quadrante più estremo dello spettro politico abitualmente presente nei Paesi democratici. Rischiando alla fine, in tal modo, di dar vita a una «religione civile» la quale non è meno tale per il fatto di assumere una forma antagonista, simmetrica anche se opposta, rispetto agli orientamenti oggi prevalenti in Occidente. Il che in ogni caso è la conferma — comunque si cerchi di evitare lo scoglio — di una consustanziale, inevitabile, crucialità politica del Cristianesimo, che lo rende, per chi sappia vedere, il cuore tuttora pulsante e problematico della nostra civiltà.

CORRIERE.IT

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