Ospedali in bancarotta
«Il bilancio della sanità è in attivo di 312 milioni». Così, solo tre mesi fa, la Corte dei Conti annunciava per Asl e ospedali la fine dei conti in rosso dopo anni di spending review. Ma un documento top secret del ministero della Salute svela ora che solo nelle aziende ospedaliere italiane c’è un buco da un miliardo e mezzo, ripartito tra 42 nosocomi dei 100 sparsi lungo lo Stivale. Mentre altri 9 hanno i conti in ordine ma non garantiscono i livelli essenziali di assistenza.
Il record delle perdite ce l’ha la Campania, con oltre 350 milioni, 102 dei quali del solo Cardarelli di Napoli. Segue poi a ruota il Lazio, dove il buco è di 257 milioni, 77 dei quali attribuibili all’ospedalone romano San Camillo-Forlanini. Al terzo posto della classifica si piazza la Sicilia, con 231 milioni. In pratica tre sole regioni generano ben oltre la metà del deficit ospedaliero nazionale. Segue poi la Lombardia con otto ospedali che sommano un rosso da 216 milioni. Al quinto posto il Piemonte con 163 milioni, tutti attribuiti alla Città della Salute di Torino. Quantificazione che stride con i soli 15,8 milioni iscritti in bilancio con la matita rossa. Una forbice che la dice lunga sui diversi modi di valutare i conti tra Stato centrale e Regioni.
La verità, secondo i tecnici della salute, è che nei bilanci ospedalieri si nascondono contributi regionali, come quelli sulle funzioni non tariffabili, tipo pronto soccorso, terapia intensiva e trapianti, che in molti casi non corrispondono al valore delle prestazioni erogate. E stesso discorso vale per le tariffe su ricoveri e interventi chirurgici, che variano sensibilmente da una regione all’altra. Insomma, ripiani a pie’ di lista non propriamente indolori per contribuenti e assistiti.
I numeri parlano chiaro. In un decennio Asl e ospedali sono passati da una perdita di 5,7 miliardi a un attivo di quasi 400 milioni. Lotta agli sprechi, si dirà. Ma guarda caso nello stesso arco di tempo le addizionali regionali sull’Irpef hanno subito un’impennata del 59%, passando da un gettito di 7,4 miliardi a uno di 11,8, che ci è costato in media 158 euro a testa. Di più per chi abita in regioni in piano di rientro dai deficit sanitari.
Quindi il grosso della falla lo si è tamponato aumentando le tasse. Ma si è anche tirata la cinghia, risparmiando soprattutto su personale sanitario e farmaci, per i quali la spesa ha fatto il passo del gambero, diminuendo rispettivamente dell’1,2 e del 5,5%. Riduzioni che qualche ricaduta sui livelli di assistenza avranno anche avuto se calcoliamo che a furia di non sostituire medici e infermieri che vanno in pensione oramai per le corsie si aggirano in maggioranza sanitari con i capelli bianchi, che faticano a sostenere lo stress di servizi come quelli di emergenza. Sui farmaci poi si saranno anche spuntati prezzi più favorevoli, ma è difficile immaginare che con le nuove super pillole, del valore medio di 100mila euro a terapia, qualche razionamento non ci sia stato, come mostra la vicenda dei farmaci anti epatite, inizialmente mutuabili solo per i malati più gravi.
Questo non vuol dire però che sia finito il lavoro di taglio agli sprechi. Uno studio dell’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, due anni fa ha messo a confronto quattro grandi ospedali, assimilabili anche per la complessità delle prestazioni offerte e, tra spese per riscaldamento, lavanderia e mensa che triplicano da un nosocomio e l’altro ed infornate di amministrativi mentre medici e infermieri scarseggiano, ha tracciato una mappa degli sprechi del valore di circa un miliardo.
Per questo la titolare della salute, Beatrice Lorenzin, si è battuta per inserire una norma nella legge di stabilità del 2016, poi un po’ annacquata in quella dello scorso anno, che obbligava i manager degli ospedali con un rosso pari almeno al 7% del loro bilancio (o a 7 milioni in valore assoluto) a predisporre piani di rientro triennali. Pena la perdita della poltrona di direttore generale.
Solo due mesi fa, però, la Consulta ha accolto un ricorso della Regione Veneto, affermando che la norma in sé è legittima, ma che la quantificazione degli sfondamenti di spesa va accertata insieme alle Regioni. Di fatto uno stop che potrebbe portare brutte nuove per i tartassati del federalismo fiscale e sanitario.
Ha collaborato Flavia Di Pasquale
LA STAMPA