La statura di Angela Merkel

Si parla molto delle esportazioni tedesche. Beh, al momento la maggiore di queste è Angela Merkel. La cancelliera si avvia a vincere le elezioni federali di domenica prossima con il mondo che la osserva, che la identifica con la Germania, che vede in lei il difensore principale della libertà di mercato e di un mondo fondato su regole condivise. Nei suoi 12 anni di governo, ha fatto errori e compiuto passi falsi: essere però diventata il punto di riferimento o la bestia nera dei democratici o dei dittatori è un risultato magistrale, probabilmente il maggiore che ha confezionato.

Il manifesto con il quale il suo partito, la Cdu, arriva all’appuntamento elettorale è una grande fotografia della leader accompagnata dalla scritta «Successo per la Germania». Indubbiamente, grazie alla sua cancelliera, oggi il Paese ha una reputazione globale che non aveva mai avuto dal crollo del nazismo e che va oltre le sue dimensioni e i suoi muscoli.

 Nella legislatura tedesca che si sta chiudendo, Merkel non ha fatto molte riforme, anzi. E lo stesso è successo nelle due legislature precedenti, nelle quali ha guidato il governo una volta con i socialdemocratici (come negli scorsi quattro anni) e un’altra con i liberali. Tra gli errori che le vengono attribuiti — non di poco conto ma che gli elettori le perdonano — c’è l’uscita repentina dal nucleare dopo il terremoto di Fukushima, decisione molto costosa; come carissima per le bollette elettriche dei cittadini e delle imprese è la Energiewende, la transizione a un’economia senza emissioni nocive (che non sta funzionando come voluto).

C’è l’avere tenuto aperte le porte del Paese ai rifugiati siriani e iracheni nel 2015 senza avere avuto un piano domestico ed europeo: segno della sottovalutazione precedente della situazione in Medio Oriente.

C’è la clamorosa collusione sua, del governo di Berlino e dei due maggiori partiti, cristianodemocratici e socialdemocratici, con l’industria automobilistica sempre protetta e ora coinvolta in scandali e spaventata dalla concorrenza new tech in arrivo dalla Silicon Valley. Secondo alcuni critici c’è l’errore di non avere aiutato a sufficienza l’allora primo ministro britannico David Cameron a ottenere riforme a Bruxelles che avrebbero forse potuto evitare la Brexit. E c’è la cancellazione di alcune riforme del mercato del lavoro e delle pensioni. A fronte di tutto questo, Merkel, leader fluida e a-ideologica, ha mostrato la gran capacità di accompagnare senza scosse i cambiamenti della società tedesca e di non mettere mai a rischio il buon andamento dell’economia. E, verso l’estero, ha conquistato una reputazione inimmaginabile fino a pochi anni fa.

La statura internazionale della cancelliera è cresciuta nella gestione delle crisi europee del debito e della Grecia. Ha raggiunto un punto alto nel rapporto conflittuale con Vladimir Putin sull’annessione russa della Crimea e nel tenere unita l’Europa nell’imposizione di sanzioni contro Mosca. Ha fatto un balzo nel mostrare lo spirito umanitario di Merkel e della Germania nell’apertura ai rifugiati (al di là della sottovalutazione precedente). Si è rafforzata nello stabilire buoni rapporti con il leader cinese Xi Jinping, con quello indiano Narendra Modi, con il giapponese Shinzo Abe e, soprattutto, con Barack Obama. E ha raggiunto l’apice durante il G7 di Taormina e il G20 di Amburgo quest’anno quando ha mostrato la faccia dura a Donald Trump e si è presentata come la paladina globale di un ordine internazionale aperto, non protezionista, guidato da regole condivise, gestito a bassa voce e con compromessi.

Oggi — di fronte alle convulsioni a Washington e al network degli «uomini forti» Putin, Xi, Erdogan e lo stesso Trump — Merkel fa apparire la Germania come la sola democrazia in grado di avere una voce forte a livello internazionale. La cancelliera sa che Berlino non ha i muscoli per giocare da sola questo ruolo e che il Paese è restio a seguirla. Ciò nonostante, il mantello di liberale in politica estera Merkel lo ha indossato. Il suo atto più coraggioso.

CORRIERE.IT

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