Di Maio leader M5S: “Cambierò l’Italia”

ilario lombardo
inviato a rimini

«C’è una grande suspense sul candidato premier. Ah ah ah». Nella migliore tradizione giullaresca, dietro la risata da comico, Beppe Grillo dice la verità. Senza un briciolo di emozione, poco dopo le sette di sera Luigi Di Maio viene annunciato come il candidato premier del M5S. Contro i suoi non-avversari, una senatrice e sei consiglieri, tutti sconosciuti, ha preso 31 mila voti, su 37 mila votanti. Non proprio il pienone di clic che ci si attendeva, molto lontani da 70-100 mila voti che sperava il deputato Danilo Toninelli. Meno di un terzo dei circa 130 mila iscritti certificati (ultima cifra fornita ufficiosamente dallo staff della Casaleggio Associati, abbastanza restia a dare informazioni più precise a riguardo).

 Meno di 40 mila votanti segnano il passaggio epocale del M5S. E Grillo, che tra un blues e un altro sembra vibrare della sua libertà riconquistata di uomo di spettacolo, lo sintetizza emozionato così: «Prima abbiamo liberato la rabbia con un urlo e il nostro diritto al grido. E ora stiamo andando verso una nuova dimensione e tra gridare e il futuro ci vuole un detonatore…». Quel detonatore si chiama Di Maio, 31 anni, da Pomigliano d’Arco, vicepresidente della Camera e da ieri non solo candidato premier, ma anche capo politico. Ancora la risata rivelatrice di Grillo: «Da domani il capo politico del M5S non avrà più il mio indirizzo.

Le denunce non arriveranno più a casa mia…eh, eh, eh…Sono cazzi tuoi Luigi». Grillo tornerà ai suoi show, finalmente sgravato – spera – dai ricorsi che lo hanno sommerso in questi anni per colpa di uno statuto che non c’è e di regole troppo ballerine. È soprattutto per questo che ha abdicato. Ma non se ne andrà del tutto. Resterà garante, padre nobile, un genitore che tiene d’occhio i figli da casa. «Io non so dove stiamo andando ma non posso uscire dal Movimento perché è nel mio dna».

 

I geni si ereditano ma per Di Maio non sarà semplice. Il suo è già il discorso di un candidato pronto alla sfida. Sminuisce il flop dei voti sul sistema Rousseau, «perché sono i milioni di voti degli italiani che ci servono per vincere». Annuncia di voler abbattere la legge elettorale in discussione alla Camera, il Rosatellum Bis, «fatta per trasformare il primo partito nel Paese, il M5S, nell’ultimo in Parlamento». Promette «una squadra di governo di capaci», prima delle elezioni, e assicura di essere cosciente «che il compito che mi è stato affidato non è di cambiare il M5s, ma di cambiare il Paese». «Non possiamo illuderci di governare il Paese solo con chi ci vota, ma abbiamo il dovere di coinvolgere tutti coloro che non ci hanno votato. Noi non siamo entrati nelle istituzioni per impadronircene».

 

E come ulteriore rassicurazione sul potere che avrà da capo politico insiste su due parole, «tutti» e «insieme», come desiderio e promessa di unità rivolta a chi non gli crede. Alessandro Di Battista gli assicura il sostegno, anche se non c’è, lo fa con un video-messaggio commosso, perché la sua compagna sta per partorire. Roberto Fico, invece, si limita ad ascoltarlo dal backstage. Non sale sul palco. Per tutto il giorno lo chiamano al telefono, lo fa Grillo, lo fa Di Maio. Gli chiede di salire con lui, di farsi vedere insieme, di partecipare alla sua festa. Fico rifiuta. L’ortodosso ribelle accetta solo di congelare la battaglia fino a sera per permettere uno svolgimento sereno della festa. Ma resta in disparte. A Di Maio e Davide Casaleggio che gli chiedono un confronto e un chiarimento dice: «Cerchiamo di ripartire dalle cose che non vanno bene, riprendiamo un percorso più partecipato e più condiviso. Il Movimento deve avere il coraggio di difendere le proprie origini». Quando però, dopo i rigeneranti abbracci degli attivisti, sente i suoi compagni di fronda, confessa: «Non si è risolto nulla». La pace è temporanea, in ossequio a Beppe e al M5S, a quello che per Fico resta ancora il suo M5S. Almeno per ora.

LA STAMPA

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