Noi, i migranti e lo ius soli i dubbi che sono legittimi
Perché la maggior parte degli italiani, come indicano tutti i sondaggi, sono contrari alla nuova legge sulla cittadinanza nota come ius soli? A questa domanda — forse non del tutto irrilevante nel momento in cui da molte parti si auspica o si annuncia come prossimo il completamento in Senato dell’ iter di approvazione della legge — ci sono tre risposte possibili: a) supporre che i suddetti italiani siano male informati, e quindi ignorino quello che in realtà dice la legge; ovvero b), ritenere che per qualche misteriosa ragione sempre i suddetti italiani siano naturalmente predisposti a nutrire sentimenti xenofobi e/o razzisti; oppure, terza risposta, c), pensare che la legge presenti effettivamente aspetti discutibili capaci di destare a buon motivo perplessità se non allarme.
Secondo me legislatori saggi e pur favorevoli in generale alla legge dovrebbero fare propria quest’ultima risposta: e dunque provare a vedere che cosa c’è nella legge che lascia dubbiosi. Provo a dirlo io secondo il mio giudizio: è il fatto che per la sua parte centrale la legge sullo ius soli è pensata e scritta secondo una prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale. È centrata esclusivamente sul candidato alla cittadinanza in quanto singolo.
Come si sa, infatti, la cittadinanza italiana sarebbe d’ora in poi dovuta di diritto a chiunque, compiuto il diciottesimo anno di età, sia nato in Italia da genitori stranieri o vi sia arrivato prima dei dodici anni. E inoltre che in Italia abbia compiuto con successo un ciclo scolastico di almeno 5 anni o un corso d’istruzione o formazione professionale triennale o quadriennale. La legge insomma prescinde del tutto dal contesto culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e politici. Si richiede solo che uno dei genitori abbia un regolare permesso di soggiorno, un’abitazione degna di questo nome, un reddito minimo e sappia parlare italiano. Così come essa prescinde dagli eventuali vincoli di fedeltà che il candidato di cui sopra abbia contratto con altre istituzioni o Stati. Non è un caso che per il futuro cittadino italiano non sia previsto, mi sembra, l’obbligo della rinuncia a ogni altra nazionalità di cui sia eventualmente già in possesso (come è quasi certo).
Ora, se si vuol stare coi piedi per terra è giocoforza ammettere che a proposito della nuova legge le preoccupazioni dell’opinione pubblica nascono in specie in relazione ad una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura islamica. Sono preoccupazioni realistiche. È in tale ambito, infatti, che si registra la presenza di un fortissimo vincolo familiare e di gruppo, cementato e per così dire sublimato da un altrettanto forte comandamento religioso: entrambi in grado di condizionare in misura decisiva mentalità e comportamenti del singolo. Di tenerlo legato ad un’appartenenza che, come è stato più e più volte dimostrato, è pronta, a certe condizioni, a non tenere in alcun conto regole, principi, fedeltà che non emanino da fonti diverse da quelle suddette. Non è possibile ignorare che è proprio un tale nodo di vincoli e di appartenenze a sfondo cultural-religioso- familiare che quasi sempre si delinea dietro gli ormai innumerevoli episodi di terrorismo islamista che da anni insanguinano l’Europa.
Ma non è solo di questo che si tratta. C’è un ulteriore insieme di problemi e un ulteriore ordine di esigenze non attinenti questa volta all’ordine pubblico ma piuttosto all’ordine culturale di una comunità. In questo caso della comunità italiana, la quale legittimamente desidera continuare a riconoscersi come tale e quindi a conservare i propri valori e stili di vita. L’esigenza, per fare alcuni esempi, che le bambine non vengano rispedite a dodici anni nei propri Paesi d’origine per essere sposate contro la propria volontà, che nell’ambito familiare non sia impedito a nessuno di uscire di casa quando vuole e di apprendere l’italiano, che in generale vengano riconosciuti alle donne diritti e possibilità eguali a quelli riconosciuti agli uomini. È davvero così disdicevole o addirittura reazionario voler essere sicuri che chi acquista la cittadinanza italiana, i nostri nuovi concittadini, siano fermamente convinti delle esigenze che ho appena detto, che essi condividano questi elementi di base della cultura della comunità italiana, senza che ci sia bisogno che intervengano a ricordarglielo ogni due per tre carabinieri o magistrati? A me sembra di no.
Il fatto è che se l’obiettivo pienamente condivisibile della legge sullo ius soli è l’integrazione nella società italiana, allora appare del tutto irragionevole supporre che una tale integrazione presenti gli stessi problemi per chi proviene, faccio un esempio, dal Perù o dal Congo. Appare del tutto sensato, invece, supporre che nel secondo caso l’integrazione sia assai più lunga e difficile, presenti aspetti assai più complessi. E poiché evidentemente la legge non può fare discriminazioni, appare allora altrettanto sensato pensare ad un testo di legge diverso da quello attuale, e cioè «tarato» sulla fattispecie più difficile, vale a dire sull’immigrazione proveniente dalle culture più distanti da quella italiana.
Tra le quali dobbiamo riconoscere che la prima in assoluto è di fatto quella islamica. Per ragioni che dovrebbero essere ovvie: perché è quella con la quale l’Occidente ha da oltre un millennio un confronto-scontro anche assai aspro che ha lasciato eredità profonde da ambo le parti, perché è quella che in ambiti identitari cruciali — come la pratica religiosa e cultuale, il rapporto tra i sessi, le regole alimentari — ha le più marcate diversità rispetto a noi, e infine, e soprattutto, per una drammatica ragione geopolitica di fronte alla quale sarebbe da sciocchi chiudere gli occhi.
Infatti, da un lato l’azione spesso violenta delle correnti islamiste antioccidentali, dall’altro il poderoso lavoro di penetrazione che grazie alle proprie immense risorse finanziarie molti Paesi arabi vanno compiendo in Europa, entrambe queste strategie si fanno forti in vario modo per i loro disegni della presenza nel nostro continente di vaste comunità musulmane. Stando così le cose è ovvio l’importante aiuto che la concessione della cittadinanza può oggettivamente offrire a questi progetti. E stando così le cose, è più che lecito chiedersi se sia davvero immaginabile che il semplice fatto, come immagina la legge, di avere frequentato le nostre scuole elementari (un ciclo d’istruzione di cinque anni appunto) possa realmente legare all’Italia, alla sua cultura e ai suoi valori un giovane che, mettiamo, per il resto della sua esistenza sia vissuto però entro un contesto familiare, religioso e di gruppo fortemente islamizzato. Se sia sufficiente una siffatta garanzia o non sia piuttosto il caso di prenderne in considerazioni anche delle altre. Per decidere quali non mancano certo in Parlamento e nel Governo le conoscenze e le competenze necessarie.
L’importante è tenere a mente che in questo genere di faccende riguardanti il più vitale interesse nazionale non dovrebbe esserci posto né per il «buonismo» né per il «cattivismo», non dovrebbe esserci posto per il partito preso, per la superficialità o per la demagogia (né per quella di destra né per quella di sinistra). Qui dovrebbe parlare solo la voce del senso comune e del realismo: e bisogna sforzarsi di credere che nella vita politica del Paese non manchino le voci capaci di parlare questo linguaggio.
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