“Chi divide non è più Papa”. E in Vaticano c’è chi pensa all’impeachment di Bergoglio

La parola proibita ormai circola apertamente. È americana, richiama libertà, contropotere, vittoria della giustizia e della verità. Impeachment. Ne hanno fatto le spese presidenti e ministri. Per un Papa non è previsto, la sua autorità deriva direttamente da Dio attraverso il voto dei cardinali blindati in conclave e nessuno può attentarvi se non il Pontefice stesso con un gesto clamoroso di rinuncia.

È stata la scelta di Benedetto XVI. Ma nonostante che la volontà divina e il diritto canonico non prevedano la messa in stato d’accusa del Papa, l’idea dell’impeachment si diffonde nelle cerchie antibergogliane. Non si sa bene come procedere, né chi avrebbe il potere di farlo; gli ecclesiastici non si espongono e i pochi che accettano di parlarne chiedono un drastico riserbo. Eppure l’impeachment di Jorge Mario Bergoglio è il sogno proibito di molti conservatori. Un esercito in crescita, si garantisce in quegli ambienti, alimentato da un malcontento che sarebbe noto sia in Vaticano sia nel clero di Roma.

Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, in un articolo scritto per gli 80 anni di Bergoglio lo ha messo nero su bianco, sia pure in forma interrogativa, analizzando le reazioni ai «dubia» presentati dai cardinali Caffarra, Burke, Brandmüller e Meisner. Un paio di mesi dopo, 23 studiosi di tutti i continenti avevano ipotizzato «una forma di correzione fraterna» poiché «la Chiesa sta entrando in un momento gravemente critico della sua storia, che presenta allarmanti somiglianze con la grande crisi ariana del quarto secolo». E l’ex ministro di Monti si è appunto chiesto se non si stia prefigurando un impeachment. Non uno scisma di chi abbandona la Chiesa, ma l’opposto: la deposizione del Papa non più ortodosso. Perché, dice un ecclesiastico attribuendo la citazione al defunto cardinale Carlo Caffarra, «un Papa che divide l’episcopato non è più Papa».

La lettera dei 23 era l’embrione del documento pubblicato ieri con 62 firme. Una correzione che non è «fraterna» ma «filiale»: i sottoscrittori scrivono di esservi «costretti» per «alcune eresie sviluppatesi» a partire dall’«Amoris laetitia». Un Papa infedele, dunque. La lettera non chiede dimissioni né tantomeno adombra un impeachment, che oggi è fantareligione. La coesistenza di tre Papi, uno dimesso, uno eretico e uno scismatico, sarebbe uno scenario grottesco. Ma ormai la sfida dei «dubia», forse al di là delle intenzioni dei quattro porporati, è il primo passo formale verso una messa in stato d’accusa di Francesco come la «correzione» di ieri è il secondo. Mentre il documento dei 62 non ha precedenti, i «dubia» sarebbero una «prassi secolare», almeno secondo i firmatari, ma nella bimillenaria storia della Chiesa sono rari i precedenti di cardinali che chiedono al pontefice di chiarire questioni dottrinali dopo essere andato fuori dal seminato.

Ma prima che i quattro si esponessero formalmente nel settembre di un anno fa, altri porporati si erano rivolti in altre forme a Francesco manifestando il proprio disorientamento. Il Papa non ha dato risposte, come ha accolto nel silenzio anche i «dubia». Era stato il cardinale Burke a tentare un altro passo in avanti. A gennaio ha detto che meditava un’ulteriore richiesta di chiarificazione, «un atto pubblico e ufficiale con il quale è possibile arrivare a correggere il Papa nei suoi eventuali errori dottrinali in materia di fede». Anche di questa correzione formale non ci sono precedenti. Almeno fino a ieri, senza peraltro la firma di Burke.

Se la strada dell’impeachment è impervia, se è difficilissimo trovare qualche canonista disposto ad avventurarsi su questo sentiero impercorribile, la contestazione ha preso una strada diversa, quella di lavorare ai fianchi il Papa argentino perché sia lui stesso ad ammettere gli errori e magari dimettersi. I circoli tradizionalisti assicurano di non essere frange minoritarie, di trovare comprensione in vari settori della curia vaticana che però non intendono uscire allo scoperto, almeno per ora, con un Pontefice che tiene alla grande la scena sui media di tutto il mondo. Il silenzio, si fa notare, non significa necessariamente approvazione. I quattro cardinali «dubiosi» sarebbero soltanto la punta dell’iceberg anche nel Sacro collegio.

Lo stesso Bergoglio ha sollecitato le critiche. Ai due Sinodi sulla famiglia ha invitato a discussioni franche. I suoi detrattori sostengono dunque di fargli un piacere. Ma ormai il principio dell’obbedienza al Pontefice sembra saltato. D’altra parte, perché portargli rispetto se, come avevano scritto i 23 dissidenti, «la barca di Pietro è senza timone?». I punti di riferimento sono altri: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, teologi come Caffarra, del quale dopo la morte sono stati ripubblicati interventi e omelie come un magistero alternativo al quale ancorarsi. Si guarda ai vescovi dell’Africa, non dell’America Latina, e all’irrigidimento dei presuli polacchi che hanno respinto in blocco le aperture contenute nell’esortazione «Amoris laetitia». Negli Stati Uniti viene ancora sbandierata la copertina del Newsweek che un paio d’anni fa si chiedeva «Is the Pope catholic?», ovvero: il Papa è cattolico?

È in atto anche una riflessione sul ruolo stesso del papato. I medesimi che all’arrivo di Bergoglio storsero il naso quando egli preferiva chiamarsi «vescovo di Roma» anziché Papa, come se intendesse ridimensionare il suo potere universale, ora sostengono che la sua infallibilità davanti a Dio è in realtà limitata ai pochi pronunciamenti «ex cathedra» e che il magistero ordinario è opinabile. Che autorità avrebbero le interviste rilasciate a un Eugenio Scalfari che non prende appunti né registra, ma mette tra virgolette quello che si ricorda spacciandolo come autentico? O le conversazioni aeree con i giornalisti di ritorno dai viaggi all’estero, che avvengono senza filtri e con rischi enormi?

Alla desacralizzazione del papato si accompagna una campagna di attacchi personali. Bergoglio è considerato un uomo privo di cultura, attaccato al potere, irascibile e vendicativo, che per giunta a 42 anni andò in psicanalisi da una specialista ebrea. Un politico che gestisce il Vaticano per conto della lobby di cardinali che l’ha piazzato sul soglio di san Pietro. Uno sprovveduto che apprezza un’abortista come Emma Bonino, non cita autori cattolici ma gente come Fellini e Borges e mette un protestante a guidare l’edizione argentina dell’Osservatore Romano. Uno che, in fondo, non ama la Chiesa ma la sopporta, come dimostrerebbe la severità con cui Francesco tratta la curia vaticana. L’impeachment papale è una prospettiva lontana, ma la strategia in atto è abile, spiega un teologo conservatore. Sulla comunione ai divorziati hanno fatto diventare un problema di massa quella che sembrava una questione per addetti ai lavori. Così adesso le ambiguità di Bergoglio sarebbero sotto gli occhi di tutti, anche dei cattolici della domenica poco avvezzi alle sottigliezze teologiche. Ma ora pronti a imporgli le correzioni.

IL GIORNALE

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