Aiutarli a casa loro? Giusto, ma in Africa meno povertà farà crescere le migrazioni

tommaso carboni
 

Blocchi alle frontiere, rimpatri, e aiuti allo sviluppo. Sono questi i pilastri della strategia italiana (ed europea) per affrontare le migrazioni irregolari dall’Africa. Tra luglio e settembre, il calo inaspettato e drastico di sbarchi dalla Libia ha messo in luce la prima parte del piano: linea dura con le Ong, sostegno alla marina Libica, e accordi con le tribù nel sud del Paese. A questo poi si è aggiunto l’aiuto decisivo di alcune milizie della città di Sabratha – che da terra hanno bloccato le partenze per due mesi e mezzo. Poi, questo fine settimana, i barconi hanno ripreso il mare. E’ forse saltata la tregua? Troppo presto per rispondere. Certamente, però, quelle messe in campo sono misure di contenimento: non toccano le ragioni strutturali delle migrazioni. Ed è qui che entrerebbero in gioco gli aiuti allo sviluppo. Con il fondo fiduciario per l’Africa (2 miliardi e 800 milioni di euro), l’Europa, oltre a rafforzare le frontiere del Continente, vuole stimolarne cresciuta e occupazione. Investimenti benedetti se l’obiettivo è la lotta alla povertà. Ma per scoraggiare le migrazioni ci vorranno ancora diverse decadi. Anzi, nell’immediato, la crescita economica in Africa le farà probabilmente aumentare.

 Dopo gli accordi con la Turchia e la chiusura del passaggio balcanico, la maggioranza dei migranti irregolari in arrivo in Europa viaggia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. In Italia ne sono sbarcati circa 600000 dal 2014. A oggi, nel 60-70% dei casi si tratta di migranti economici, provenienti in misura crescente dall’Africa sub-sahariana.

Secondo gli esperti, a spingerli a partire è la vasta differenza tra i redditi percepiti nei paesi d’origine e quelli potenzialmente disponibili in Europa. Anche la Libia, oggi luogo di transito, era un punto d’arrivo. Poi la caduta di Gheddafi e la discesa nel caos del paese hanno costretto molti migranti a proseguire verso l’Italia.

 

Già negli anni settanta, per attenuare le pressioni migratorie, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro consigliava di sostenere redditi e opportunità d’impiego nei paesi di partenza. E’ un principio corretto. Tuttavia, l’inversione di tendenza – ossia una riduzione dell’emigrazione a fronte di un progressivo aumento della ricchezza – scatta solo una volta superato un certo livello di reddito medio. Che le ricerche economiche fissano tra i 7.000 e i 10.000 dollari pro-capite l’anno (a parità di potere d’acquisto). Secondo le stime di Bruegel, un autorevole think tank di Bruxelles, si trovano sopra a questa soglia soltanto sette dei 47 paesi dell’Africa sub-sahariana; i rimanenti 39 stanno sotto; e gran parte di loro ci resterà – anche con una crescita del Pil pro-capite del 2%, – almeno fino al 2030, quando, sempre secondo Bruegel, vivranno in quei paesi poco più di un miliardo di abitanti. Anche se non partiranno tutti quelli in grado di farlo, e una parte minoritaria di loro raggiungerà l’Europa, è comunque un numero enorme di potenziali migranti.

 

Per spiegare la dinamica delle partenze dalle nazioni povere, Michael Clemens, economista dello sviluppo al Iza Institute of Labor Economics, fa l’esempio di un ipotetico cittadino del Niger. Se restasse nel suo paese, avrebbe un reddito annuo di circa 1000 dollari. Partendo per l’Europa potrebbe guadagnarne anche 13000-14000 (probabilmente non in Italia). Ora, continua Clemens, immaginiamo che il suo reddito raddoppi grazie a una performance particolarmente brillante dell’economia nigerina. Avrebbe a disposizione 2000 dollari. Cosa fare? Partirebbe comunque, afferma Clemens. Anzi, avrebbe più soldi per finanziarsi il viaggio. Documenti, trasporti, tariffe per i visti, e pagamenti ai trafficanti (se il viaggio è irregolare).

 

Migrare, in fin dei conti, è un investimento piuttosto costoso. Non è una coincidenza quindi che Marocco, El Salvador e Filippine – con redditi pro-capite tra 7.000 e 8.000 dollari l’anno – presentino tassi di emigrazione molto superiori a quelli di paesi poveri come Etiopia, Mali e Niger. Se ne deduce, afferma Hein de Haas, fondatore dell’International Migration Institute dell’Università di Oxford, che un aumento della ricchezza in Africa sub-sahariana molto probabilmente provocherà un crescita delle emigrazioni verso l’Europa.

 

Bisogna tenere presente che in Africa la popolazione si sposta anche a causa di carestie, guerre e siccità. In questi casi la cooperazione internazionale può garantire assistenza umanitaria immediata, come cibo, protezione e medicine, stabilizzando flussi migratori anche piuttosto intensi, oltre ad adattare con investimenti di più lungo corso l’agricoltura al cambiamento climatico. Sempre per affrontare questo tipo di emergenze l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati sta lavorando con Bruxelles a uno schema da 40.000 posti l’anno per valutare le richieste d’asilo direttamente in Africa. L’obiettivo è ridurre gli arrivi illegali via mare, portando in Europa chi ne ha diritto attraverso corridoi umanitari.

 

A questo bisogna però affiancare una gestione più funzionale dei migranti economici. Qui l’Europa dovrebbe agire su due livelli, spiega Mattia Toaldo, ricercatore del think tank European Council on Foreign Relations: è corretto chiudere i canali d’immigrazione illegale, ma contemporaneamente si devono espandere le opportunità legali di entrata. Accordi sui rimpatri, avverte Toaldo, si raggiungono più facilmente offrendo qualcosa in cambio ai Paesi d’origine e transito. Per esempio, un certo numero di regolari permessi di lavoro. “Bisogna capire che la gente emigra comunque”, ha spiegato Filippo Grandi, Alto Commissario Onu per i Rifugiati, in una recente intervista. “E se non ci sono vie legali, continuerà a farlo nell’illegalità”.

LA STAMPA

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