Renzi teme il boomerang. Braccio di ferro con Orlando per modificare la norma
Renzi versus Orlando. A ttorno al capitolo più emblematico della riforma di maggiore portata simbolica della giustizia, si è giocata una partita nei giorni scorsi all’interno del Pd: tra un’ala capeggiata dal segretario Matteo Renzi, più sensibile agli allarmi del mondo imprenditoriale e una decisa ad andare a fondo guidata dal ministro Orlando. Renzi avrebbe preferito infatti cambiare questa norma, anche da premier aveva molto rallentato la legge, perché non ne condivideva vari passaggi.
E ieri, dopo un braccio di ferro, è stata partorita una mediazione: un ordine del giorno, firmato dal capogruppo Pd in commissione giustizia Walter Verini che, nella sostanza, serve a prendere tempo. Il testo approvato invita il governo a monitorare l’andamento della riforma e sottolinea la novità dirompente di questa norma, che prevede il sequestro, anche preventivo, del patrimonio di un corrotto al pari di un mafioso. In sostanza, di fronte a una sproporzione tra reddito dichiarato e patrimonio, se c’è il sospetto che quel patrimonio sia frutto di varie corruzioni precedenti, il pm può chiedere il sequestro. La portata è chiara a tutti gli addetti ai lavori. Ma al ministero della Giustizia sono convinti che essendo la riforma molto complessa, ci siano già gli anticorpi per prevenire ogni eventuale eccesso in senso giustizialista.
La riforma prevede non un sequestro preventivo tout court, ma disposto da un giudice con un dibattimento specifico, cui le parti prendono parte anche con l’avvocato difensore dell’imputato. In gergo tecnico è chiamata «giurisdizionalizzazione del procedimento».
Lo stop del Guardasigilli
Orlando è convinto dunque che non ci sarà necessità di cambiarlo e quindi di decreti o provvedimenti di urgenza non vede la necessità. Tutto è rinviato a tempi medio lunghi quando – dopo un monitoraggio attento da parte del ministero – si ravvisasse che la legge necessita di correzioni. Ma qui si innesta un problema tutto politico che impatta sulla campagna elettorale e sull’immagine del Pd, che il segretario non vuole assuma un profilo troppo giustizialista.
Non è un mistero che fin dall’inizio tale formula del sequestro dei beni non piaceva ai vertici del partito. E veniva considerata un autogol: «Matteo la voleva cambiare, Orlando e il governo non hanno voluto, perché se la riportavano al Senato la riforma sarebbe morta», racconta un dirigente renziano. Messa in ghiacciaia l’irritazione, il Pd ha studiato questa soluzione dell’ordine del giorno: che ricalca altri ordini del giorno dell’ultimo anno, tanto che già diverse riforme sono sottoposte a un monitoraggio accurato da parte del ministero.
Il rischio di affossarla
A confermare il sigillo dell’intesa raggiunta nel Pd è stato l’intervento in aula di ieri del renziano più esperto di giustizia David Ermini: che ha preso la parola per dire che tutti gli emendamenti che fossero stati approvati avrebbero comportato un ritorno al Senato e che la volontà era portare a casa la riforma. E il motivo è presto detto. Fuori verbale, più di un big del partito ammette che si è comunque deciso di procedere perché «se si usciva da questa vicenda con un affossamento del codice antimafia ci avrebbero massacrato». Sarebbe stato un colpo di immagine durissimo alla vigilia della campagna elettorale e per giunta dopo il flop dello Ius soli. Ma i renziani, nel timore di perdere voti nell’area imprenditoriale, non disperano che il governo decida di procedere con un decreto o un emendamento alla manovra che ammorbidisca questa norma.
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