L’individuo e il cittadino
di EZIO MAURO
NON bisogna nascondere il miracolo di Angela Merkel che ottiene il consenso della popolazione per il suo quarto mandato alla guida della Germania, dopo aver attraversato dalla Cancelleria il decennio peggiore dell’Occidente, reggendo la responsabilità di una grande democrazia sotto i colpi di una crisi senza precedenti, in un’epoca in cui i governi pagano dazio, le leadership sono effimere, i partiti tradizionali entrano in crisi ovunque. Ma naturalmente l’attenzione di tutti va sulla mappa politica che traballa, più che sulla stabilità della Cancelleria. Le ragioni sono comprensibili: otto punti in meno a Merkel rispetto ai cinque preventivati nei sondaggi, il peggior risultato del dopoguerra per la Spd, la grande coalizione di centrosinistra ferita e l’estrema destra che entra al Bundestag con il 13 per cento. La domanda dell’Europa al suo Paese-guida non è dunque se si formerà un governo e chi lo guiderà, cambiando alleanza: ma piuttosto dove si sposta e che forma prende l’anima tedesca, come cresce e dove si biforca la radice culturale che ha tenuto insieme il Paese dal ’45 ad oggi. In un orizzonte comune storico, economico e politico che ha portato al traguardo della riunificazione del 1990, chiudendo davvero la seconda guerra mondiale sul suolo europeo.
Proprio per il ruolo che la Germania ha oggi nel continente, e per le promesse di sovranità europea che Merkel poteva finalmente esaudire nel suo ultimo mandato, ci chiediamo oggi quale forza morale avrà la Cancelliera, al di là dei seggi che radunerà a suo sostegno in parlamento. Il sistema politico basato su Spd e Cdu-Csu aveva dietro di sé – tra alternanze e accordi di coalizione – un impianto istituzionale condiviso, una cornice europea comune, la cultura praticata per decenni dell’economia sociale di mercato, che garantisce appunto al mercato la sua libertà come fattore dinamico dello sviluppo, bilanciandolo con elementi di politica sociale, primo fra tutti il welfare. Questo compromesso tedesco è diventato nei “trenta gloriosi” (cioè i tre decenni di crescita dopo la guerra) il vero, tacito modello europeo, armonizzando Stato e mercato, democrazia e capitalismo e addirittura costituzionalizzando il proletariato, mentre parlamentarizzava la lotta di classe.
Oggi, infragilita, la Cancelliera resiste, al suo ultimo giro. Ma attorno a lei quella costruzione che è il fondamento dell’autorità politica tedesca, vacilla. Le ragioni sono due, e rischiano di essere simmetriche: il declino della Spd e la crescita impetuosa dell’estrema destra di “Alternative für Deutschland”. Nella sconfitta di Martin Schulz c’è certo una leadership consumata e poco competitiva, e c’è sicuramente lo scarso appeal elettorale di un partito che assegna a se stesso il ruolo responsabile di junior partner di Merkel, dividendo il peso della crisi ben più che l’autorità di governo. Ma c’è soprattutto un sentimento di fine d’epoca, come se a Berlino fosse finito il secolo socialdemocratico, con quella cultura e quella pratica politica che rischiano di rivelarsi creature del Novecento, incapaci di traghettare oltre la barriera del secolo. Ma poi si scopre che la Linke non va oltre i 69 seggi su 709, i Verdi si fermano a 67. Dov’è finita la sinistra, chi parla a quella metà del mondo che tradizionalmente chiede giustizia, diritti, emancipazione?
Intanto quella metà nei nostri Paesi si è sfaldata, non è più un blocco. Poi più che diritti chiede tutela. Alla giustizia preferisce la sicurezza. Prima che emancipazione, pretende rappresentanza: riconoscimento. Tutto questo oggi non si cerca automaticamente a sinistra, sia per un ritardo culturale e politico dei suoi attori, sia perché ci sono altre agenzie sul mercato che scambiano riconoscimenti istintivi, rassicurazioni identitarie, scorciatoie pre-politiche. È un rovesciamento culturale, è il cambio del terreno di gioco. Cambia la domanda, cambia l’offerta, perché tutto è mutato nel decennio e la politica – anche quella in crisi – fa parte della vita, non della sua rappresentazione mimetica. Scopriamo in ritardo che nulla è falso come la metafora del tunnel, abusata in questi anni. La crisi non è uno spazio neutro che possiamo attraversare restando noi stessi. È un agente sociale che modifica percorsi, gerarchie, riferimenti, scatenando paure libera istinti, selezionando esclusioni genera rancori, sovvertendo le speranze provoca risentimenti.
Porta a galla il lato nascosto del benessere in cui avevamo vissuto, quando la crescita compensava ingiustizie e iniquità. Svela il fondo delle nostre inquietudini. La crisi è finita, d’accordo, l’Europa torna a crescere, a diversa velocità. Ma cosa vuol dire oggi crescita, cosa c’è adesso nella parola “lavoro”? Sapevamo che nella locomotiva europea tedesca la precarietà è passata dal 18 per cento del 2001 al 20,7, per raggiungere il 30,6 tra le donne? Che c’è una differenza di 7 euro all’ora nei compensi dei lavoratori “atipici” rispetto ai tradizionali? Che i lavoratori “poveri” sono cresciuti in dieci anni dal 7 all’11,5 per cento? Che l’11 per cento dei pensionati tedeschi dai 65 ai 74 anni (cioè poco meno di un milione di persone) è obbligato dal bisogno a lavorare?
L’inquietudine del post-moderno nasce da questo presente instabile che rattrappisce la fiducia nel futuro. Si consuma la tutela della politica, si smarrisce il sentimento di cittadinanza, si perde la coscienza repubblicana. Nasce un’inedita privatizzazione dei valori che credevamo universali, e vogliamo che oggi valgano soprattutto per noi, prima di testimoniarli agli altri. Cresce una nuova gelosia dei diritti, che nel benessere declinavamo per tutti e oggi vogliamo consumare da soli. Si diffonde un modernissimo egoismo del welfare, come se non avesse funzionato da strumento di compensazione sociale, dunque di governo naturale della società. “Non voglio dividere” è la parola d’ordine che sigla la fase: senza accorgerci che segna la regressione da cittadino a individuo.
Si capisce che tutto questo sbocchi a destra, se prende la forma della deriva, non governata. E in particolare nelle zone più svantaggiate, come la Germania dell’Est, l’ex Ddr, dove vengono a galla nello scontento la deindustrializzazione, il contenzioso sulle vecchie (e basse) pensioni, il sentimento nascosto di colonizzazione da parte dell’Ovest, un senso di minorità culturale dentro un establishment “occidentale” difficile da scalare. Così si spiega l’Afd che arriva al 21,5 per cento all’Est, diventando il secondo partito sul territorio dell’ex Ddr, in un voto che sembra cortocircuitare la storia tedesca e d’Europa.
Non conta più, a quanto pare, la libertà riconquistata, il benessere condiviso, la democrazia imperfetta ma diffusa. La gelosia del presente conta di più, come se l’Occidente fosse capace di liberare, ma non di convertire, o di conquistare. E allora, forse, il secolo socialdemocratico può continuare proprio qui, nella solitudine moderna dell’individuo, per restituirlo a cittadino.
REP.IT