Da Facebook a Twitter, i social al servizio del «Russiagate». Migliaia di finti account negli Usa

«Una volta pensavo che, dando la possibilità a tutti di scambiare liberamente idee e informazioni, il mondo sarebbe automaticamente diventato un luogo migliore: mi sbagliavo». L’ammissione più dura e angosciosa era venuta, nella primavera scorsa, da Evan Williams. Davanti alla baldanza di Donald Trump il «Twitter President», il cofondatore di questa grande rete sociale aveva ammesso sottovalutazioni e clamorosi errori: «Il meccanismo di Internet si è rotto. È diventato deleterio perché premia le affermazioni estreme. E va sempre peggio».

Ma mentre Williams ha cambiato strada anni fa fondando Medium, un network più riflessivo, l’altro cofondatore tornato alla guida di Twitter, Jack Dorsey, ha fatto ben poco per correre ai ripari. E ora si scopre che la società ha reagito con scarsa energia anche ai tentativi russi di influenzare le elezioni presidenziali Usa del 2016 infiltrandosi nelle reti sociali. Fin qui i riflettori sono stati puntati soprattutto su Facebook che, dopo un’alternanza di dinieghi e ammissioni di responsabilità per lo scandalo delle «fake news», di recente, ormai nel mirino degli investigatori Fbi di Robert Mueller, il titolare dell’inchiesta federale sul «Russiagate», ha ammesso di aver ricevuto e veicolato in modo automatico anche inserzioni pubblicitarie pagate da soggetti russi e apparentemente miranti a generare scompiglio politico e sociale negli Stati Uniti.

Così nei giorni scorsi il fondatore, Mark Zuckerberg, fatte nuove ammissioni, ha consegnato il materiale relativo a 3.000 di queste inserzioni e ha promesso di tappare con l’autoregolamentazione le falle emerse nel suo sistema: il tutto con l’asserita volontà di «difendere la democrazia americana» ma anche nella speranza di evitare interventi legislativi e processi mediatici davanti al Congresso.

Intanto, però, sono emerse nuove e più vaste responsabilità di Twitter. Non solo: sta venendo fuori con prepotente evidenza che le interferenze non sono cessate con l’elezione di Trump e non avevano l’unico obiettivo di influenzare il voto dell’8 novembre. Gli interventi continuano e riguardano anche fenomeni non strettamente politici come la protesta degli atleti neri del football che si inginocchiano all’inno nazionale.

I soggetti stranieri che si fingono attivisti americani inquinano mille rivoli con l’obiettivo di alimentare divisioni e conflitti ovunque possibile. Anche con scelte spregiudicate e apparentemente contraddittorie: è emerso, ad esempio, che le inserzioni preelettorali su Facebook non puntavano solo a favorire Trump. C’erano anche pubblicità pagate per sostenere Bernie Sanders e perfino la candidata verde Jill Stein.

È impressionante vedere come, man mano che procedono le indagine dei «federali», le inchieste del Congresso e quelle della stampa, stia emergendo la trama di un tentativo di manipolazione dell’opinione pubblica non solo molto esteso (è stata provata la creazione di centinaia di migliaia di account fasulli su Twitter per veicolare messaggi anti-Clinton durante le presidenziali) ma anche estremamente sofisticato: chi si infiltra fingendosi americano manda messaggi anche di segno diverso o addirittura opposto a seconda del segmento di utenti al quale si rivolge. Manipolatori che hanno imparato a selezionare le diverse platee per razza, condizioni economiche, livelli culturali, orientamento politico o altro.

A fronte di tutto questo, Twitter si è fin qui limitata ad alcune campagne di «bonifica» per eliminare miglia di account falsi che — utilizzando anche «bot» (meccanismi automatici su larga scala) — diffondevano all’infinito una notizia falsa. Ma il fenomeno è tutt’altro che sradicato: eliminato un sito finto ne spunta subito un altro. Cosa resa possibile dalla libertà della Rete, ma anche dal fatto che Twitter, a differenza di Facebook, non chiede agli utenti il loro vero nome e non vieta gli account automatici considerati uno strumento utile per le imprese nella gestione dei rapporti online con la clientela.

Ora si avvicina il momento della resa dei conti: non solo, come abbiamo riferito nei giorni scorsi, imprese e cultura della Silicon Valley hanno smesso di esercitare un fascino magnetico sull’opinione pubblica, ma il Congresso per la prima volta sembra davvero orientato a votare leggi bipartisan per regolare alcuni aspetti delle attività delle reti sociali. I cui capi verranno chiamati a testimoniare a ottobre in Parlamento in un’audizione pubblica sul Russiagate e poi di nuovo il primo novembre davanti alla Commissione Servizi segreti del Senato. Il processo politico-mediatico che i giganti del web hanno cercato di evitare sembra alle porte.

CORRIERE.IT

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