L’unica cosa etica è cacciare chi bara
Lo scandalo dei concorsi truccati nelle università indigna e la ministra Fedeli ha annunciato che, per arginarlo, intende introdurre un codice etico a cui dovranno sottostare tutti i docenti, baroni o no che siano.
Io immaginavo che un professore un «codice etico» lo avesse dentro di sé come requisito indispensabile, direi naturale, per poter insegnare e formare le nuove generazioni. Prendiamo atto che così non è, cioè che la classe dirigente delle università che dovrebbe coincidere con la migliore del Paese ha bisogno di codici per essere perbene, come se non bastassero le non poche leggi già esistenti.
Un professore senza etica è come un ciclista senza gamba, un artista senza fantasia, un cantante senza voce. Gli manca cioè il requisito fondamentale per svolgere il lavoro che ha scelto. Se un docente, chiamato per di più a insegnare i fondamenti del Diritto, è senza etica, non saranno certo un pezzo di carta o una firma a farlo rinsavire. È che gli mancano le basi, essendo a sua volta stato formato da professori così così. Siamo di fronte, quindi, a una tara ereditaria non curabile con una circolare.
Quando un governo si trova di fronte un problema che non sa o non vuole risolvere, di solito fa due cose. Una è insediare una «commissione d’inchiesta», l’altra è emanare «codici etici». Cioè polveroni e specchietti per le allodole. Se volesse azzerare le Parentopoli negli atenei, la Fedeli, invece che un codice, dovrebbe recapitare lettere di licenziamento a chi non ha rispettato o ha furbescamente aggirato la legge, anche se i destinatari fossero i padrini o i padroni del sapere nazionale. Ma, per farlo, la politica dovrebbe essere certa che una simile prassi non le si ritorca contro. Cioè che i professori universitari, a quel punto imbufaliti, non vadano a curiosare su come parenti e amici di deputati e senatori abbiano ottenuto importanti posti di lavoro pubblici e privati. Vale la pena di scoperchiare il pentolone? Non credo proprio. Il «codice etico» è un buon boccone da dare in pasto all’opinione pubblica per lasciare tutto così com’è. In fondo siamo il Paese del «mal comune mezzo gaudio» e non c’è verso di rinsavire.
IL GIORNALE