Ius soli, troppe ipocrisie
L’incerta gestione politica che il Pd ha fatto della legge sulla cittadinanza e il relativo rimpallo di responsabilità non devono far perdere di vista il merito del provvedimento. Che è giusto che vada in porto — dal momento che alla necessaria integrazione degli immigrati serve una simile legge — ma con alcune modifiche dettate da circostanze che fin qui, invece, non sembrano essere state prese in considerazione. Circostanze che secondo me sono soprattutto le seguenti: 1) Se è demagogica l’immagine agitata dalla Destra di un’Italia a rischio d’invasione dall’Africa, è pure demagogica e falsa l’idea divulgata da certa Sinistra e da certo cattolicesimo, che approvare la legge sarebbe dettato da un elementare dovere di umanità. Fino a prova contraria, infatti, coloro che oggi si trovano in Italia, tanto più se con un regolare permesso di soggiorno (ed è a questa condizione che fa sempre riferimento anche il progetto di legge) non si trovano certo in una condizione di reietti, di non persone prive di diritti. Non sono condannati a un’esistenza immersa nell’illegalità. Essi e i loro figli, nati o no che siano qui da noi, sono protetti dai codici e dalla giustizia della Repubblica, hanno diritto all’assistenza sanitaria, hanno diritto a fruire del sistema d’istruzione italiano, possono iscriversi a un partito o a un sindacato. Non sono dei paria, insomma.
2) La cittadinanza una volta concessa non può essere tolta se non eccezionalmente. È una decisione in sostanza irrevocabile. Ma concederla o non concederla è una decisione che deve ispirarsi a criteri esclusivamente politici (non giuridici: nessuno ha diritto a divenire cittadino di alcun Paese se una legge non glielo riconosce. Non esiste, infatti, né può esistere, una sorta di diritto «naturale» a essere cittadino di questo o quello Stato: tanto più quando, come è ovviamente il caso di tutti coloro che mettono piede in Italia, si tratta di persone che una cittadinanza già ce l’hanno). Ho detto criteri politici: vorrei sottolineare «drammaticamente» politici, dal momento che con una nuova legge sulla cittadinanza come quella oggi in discussione si tratta niente di meno che di modificare il demos storico di un Paese. Proprio perciò nel definire i caratteri di una tale legge una classe politica degna del nome non dovrebbe guardare solo all’oggi ma al domani e al dopodomani. Immaginare tutti i possibili sviluppi della situazione attuale valutando attentamente ogni eventualità.
3) In questa valutazione non può esserci posto per alcuna ipocrisia dettata dal politicamente corretto: bensì solo per il realismo, per un saggio realismo. Ora questo ci dice che non tutte le immigrazioni sono eguali (e dunque alla cortese obiezione che mi ha mosso il direttore di Repubblica Mario Calabresi circa la mia proposta di vietare la doppia cittadinanza — «non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese» — la risposta è semplice: perché il Marocco e il Senegal non sono gli Stati Uniti). L’immigrazione islamica, infatti, è un’immigrazione particolare per almeno due ordini di ragioni: a) perché non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime; b) perché alcuni degli Stati islamici di cui sopra mostrano — non finga la politica di non sapere e non vedere certe cose — un particolare, diciamo così, dinamismo antioccidentale. Da un lato, alimentando sotterraneamente radicalismo e terrorismo, dall’altro (ed è soprattutto questo che deve interessarci) svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali») all’interno delle comunità islamiche presenti nella Penisola. Le quali da tutto questo lavorio ricavano la spinta a un forte compattamento cultural-identitario di un contenuto tutt’altro che democratico (ci si ricordi per esempio dei sentimenti antiisraeliani/antisemiti già così diffusi in quel mondo).
4) La cittadinanza significa il diritto di voto. In una tale prospettiva e alla luce di quanto appena detto è necessario evitare nel modo più assoluto che, complice il prevedibile aumento dell’immigrazione africana e no solo, domani possa sorgere la tentazione di un partito islamico. Il quale, sebbene forte di solo il 3-4 per cento dei voti, tuttavia, con l’aiuto del proporzionalismo congenito del nostro sistema politico, potrebbe facilmente diventare cruciale per la formazione di una maggioranza di governo. C’è qualcuno che ha pensato a queste cose, a evitare che esse possano prendere una simile piega? In realtà la legge di cui stiamo discutendo si chiama impropriamente dello ius soli mentre molto meglio sarebbe pensare a una legge fondata sullo ius loci. Il testo attuale, infatti, non riconosce per nulla l’essere nato in Italia come condizione sufficiente per ottenere la cittadinanza, come dovrebbe fare una legge realmente ispirata a quel principio. Vi aggiunge essa per prima condizioni ulteriori di natura culturale e non, le quali riguardano sia il richiedente sia la sua famiglia (l’adempimento di un ciclo scolastico, il possesso di un regolare permesso di soggiorno da parte di un genitore, ecc.) sono personalmente convinto che a queste condizioni sia opportuno aggiungerne altre, in obbedienza a un principio basilare: e cioè che vanno, e possono essere, integrate le persone, non le comunità. E che proprio per far ciò è necessario, nei limiti del possibile e rispettando i diritti di tutti, cercare di allentare il più possibile il vincolo identitario-cultural-comunitario che spesso, specialmente nelle comunità islamiche, chiude gli individui in un involucro antropologico ferreo (si pensi alla condizione delle ragazze e delle donne in genere). Solo allentando un tale vincolo è possibile il reale passaggio ad una nuova appartenenza ideale e pratica quale è richiesta dal partecipare realmente ad una nuova cittadinanza.
Per favorire e insieme accertare quanto ora detto penso che almeno queste altre tre condizioni dovrebbero essere poste per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli immigrati: l’obbligo di abbandonare la cittadinanza precedente; la conoscenza della lingua italiana in entrambi i genitori del giovane candidato, non già solo in uno di essi come nel testo attuale (genitore che poi finirebbe per essere quasi sempre il genitore maschio: mentre la conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra); infine l’obbligo di accertamenti sull’ambiente familiare ad opera dei servizi sociali sotto l’egida di un apposito ufficio presso ogni prefettura.
CORRIERE.IT
This entry was posted on domenica, Ottobre 1st, 2017 at 09:22 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.