Sono le undici di sera quando il governo della Generalitat varca il confine: «Benvenuti nella Repubblica catalana». Finisce così, con un nuovo pericoloso inizio, l’eterna giornata della ribellione anti spagnola. Secondo il governo catalano, con l’affluenza del 42%, ha ottenuto circa il 90% dei sì il referendum tenuto in Catalogna per l’indipendenza dalla Spagna. Sarebbero andati a votare il 55% senza le repressioni, secondo il governo catalano. Hanno votato 2,26 milioni di persone, 2,02 hanno votato «sì» al quesito «vuoi che la Catalogna diventi uno stato indipendente in forma di repubblica?».
In una terra che non disdegna l’epica, nessuno immaginava che così tante cose potessero succedere in 24 ore: i seggi presidiati di notte, le schede che arrivano all’alba, poi l’incubo delle irruzioni della polizia e infine uno scrutinio scontato, ma con conseguenze inimmaginabili.
L’aria che tira la coglie il cameriere di un hotel della Gran Via che indica le otto camionette con gli anti sommossa pronti a colpire: «Ecco, con la Spagna oggi abbiamo chiuso».
Per la secessione c’è anche la data: «Mercoledì porteremo in parlamento i risultati di questo referendum: abbiamo diritto a un nostro Stato» dice il capo della Generalitat Carles Puigdemont. Una road map che spaventa Madrid, pronta a togliere l’autonomia alla regione. È solo l’inizio della rivolta: per protesta chiudono i teatri e si proclama lo sciopero generale. Gli indipendentisti hanno le foto che cercavano: «Madrid ci opprime» dicono al mondo tra lo sconcerto generale nel resto di Spagna.
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Le scene del primo ottobre catalano sono forti e inedite in «una grande democrazia», come la chiama a sera il premier spagnolo Mariano Rajoy che qualifica «farsa», il voto. Ma due ore dopo, i risultati arrivano: ha vinto il Sì con una percentuale attorno all’88%, in tre milioni, secondo il governo catalano, hanno provato a partecipare. I dubbi sui risultati sono legittimi (le irregolarità ci sono state), ma sulla Spagna, più che queste schede precarie, pesa il bilancio terribile dei feriti: oltre 844 di cui 8 gravi. Il sangue sul volto di persone anziane e i colpi gratuiti allontanano un altro po’ tanti catalani dal resto della penisola: «Ci hanno voluto umiliare».
Oltre ottanta anni dopo la guerra civile spagnola, Barcellona si sente assediata e non è una metafora. Non c’è Franco ovviamente, ma viene evocato lo slogan fascista: «Per mare, per terra e per aria». Dalle navi in porto sbarcano i poliziotti impiegati nella repressione del referendum illegale. Dalle strade arrivano altri rinforzi. E si chiude lo spazio aereo per permettere agli elicotteri di condurre le operazioni. La sindaca Ada Colau (non indipendentista) attacca: «Rajoy è un vigliacco e occupa la città».
La giornata comincia che è ancora notte. Alle cinque e mezza davanti a tutte le scuole della Catalogna si radunano le folle senza bandiere. Sono gli aspiranti elettori che blindano il loro sogno: «Votarem». All’apertura dei seggi mancano tre ore e mezza, ma il primo appuntamento è alle 6 con la polizia, che, sono gli ordini dei giudici, deve chiudere gli istituti. Venti minuti dopo però, davanti alla scuola Diputaciò, nel cuore dell’Eixample modernista si vedono solo due Mossos d’Esquadra, gli agenti dell’autonomia catalana, sospettati di intelligenza con il nemico da Madrid. Si avvicinano timidi alla porta, sono un uomo e una donna e anche volendo (ma non vogliono) non potrebbero chiudere i cancelli con tutta questa gente davanti. L’attesa sarà lunga e comincia anche a piovere: «Sono sette anni che aspettiamo», dice la professoressa Maria Molas. La data ha un senso: nel 2010 veniva bocciato dalla corte costituzionale lo Statuto d’autonomia voluto dal premier Zapatero e votato in massa dai catalani. Quel No dell’alta corte di Madrid viene considerato l’episodio che ha dato il via a quello che qui si chiama semplicemente «il processo», con l’indipendentismo che è passato dal 15%, a una percentuale vicina alla metà della popolazione.
Due strade più in là, Carrer de Mallorca, stessa scena. Nessuno sgombero previsto, ma manca un elemento: le urne. È l’oggetto più desiderato e ricercato delle ultime settimane e in fila al seggio nessuno sa davvero dove sia. Le speculazioni finiscono quando arriva un’auto: alla guida c’è una donna, che si ferma davanti all’ingresso. Scende il passeggero ed estrae un grande sacco nero dal portabagagli. Cosa ci sia dentro alla busta è chiaro. L’atto di disobbedienza è lì davanti a tutti, palese e rivendicato, ai Mossos basterebbe poco per requisire il contenitore proibito, ma si girano, letteralmente, dall’altra parte. L’ammutinamento si consuma e quel punto l’applauso è vigoroso. Ora sì: si vota.
Sono solo le otto, i seggi sono ufficialmente aperti. Il governo catalano fa un annuncio importante: «Si può votare in ogni sezione e le schede si possono stampare a casa». È la contromossa alla chiusura delle scuole, che la Procura aveva ordinato e che in qualche caso era riuscito. L’avviso è accolto con sollievo dagli osservatori, «ora il governo spagnolo può dire che è tutta una farsa ed evitare la violenza». L’ottimismo dura pochi minuti. I telefoni cominciano a vibrare: «Stanno attaccando la scuola Pau Claris». È la prima di una lunga serie di cariche della polizia nazionale e della Guardia Civil, i corpi dello Stato sbarcati dalle navi con l’intenzione di passare all’azione, requisendo le urne, vista la passività dei Mossos. I video con le violenze sui votanti cominciano a girare sui social e la situazione precipita in breve.
Nel 2014 i catalani votarono in una consultazione non vincolante, ma grazie a un accordo tra i governi si evitò di mandare la polizia. Stavolta non c’è dialogo alcuno e la prova è che lo stesso presidente della Generalitat Carles Puigdemont trova le camionette delle forze dell’ordine davanti al suo seggio, alle porte di Girona (voterà altrove). Le cariche si susseguono: chiunque ostacoli il passaggio degli «antidisturbios» viene spostato senza riguardo, ci sono molti anziani che finiscono in terra. Arrivano anche proiettili di gomma (proibiti) e lacrimogeni. Un ragazzo rischia di perdere un occhio. Quando è il caso, e pure quando non lo è, si picchia forte. Il bilancio sale di minuto in minuto: 5 feriti, 12, 54, fino a sfiorare il migliaio a sera (contando i contusi). La gente, per fortuna, non reagisce (salvo casi isolati) evitando l’ecatombe. La resistenza passiva a volte funziona, come all’istituto Diputaciò, dove gli agenti sono costretti alla retromarcia dal muro di folla che difende l’ingresso. Qui la prendono come una vittoria, ma il 2 ottobre fa più paura dei manganelli.
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