A Taranto e Genova la bomba siderurgica rimette in dubbio gli accordi fatti dall’Italia

paolo baroni
roma

Il governo, una volta trovato un compratore dalle spalle belle larghe come Arcelor Mittal, pensava di aver messo in sicurezza il dossier Ilva ed invece di colpo il problema riesplode. Partita molto delicata quella che si apre a Taranto, a Genova, a Novi Ligure e negli altri siti controllati dal gigante siderurgico. Perché ora si tratta di decidere chi passa alla nuova società, e a quali condizioni, e chi resta fuori.

Col Paese già da mesi in piena campagna elettorale migliaia di operai che scioperano da Nord a Sud, Genova che torna in piazza e Taranto in rivolta, per l’esecutivo si profila certamente un bel problema da gestire. Anche perchè oltre alle proteste dei sindacati da sinistra gridano già alla «macelleria sociale», a Genova Pd e amministrazioni di centro destra, Comune e Regione, fanno fronte comune contro la nuova proprietà, mentre Taranto è di nuovo tornata quella polveriera che abbiamo già conosciuto in passato. Anche qui è stato proclamato uno sciopero. Ma di 24 ore, tutti i turni e tutti i reparti. «Siamo stanchi di essere sbeffeggiati», mandano a dire senza tanti giri di parole ai nuovi proprietari ed al governo. Lo stesso sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci del Pd, alza la voce: «Quanta disinvoltura nel gestire una tematica così delicata. Non resteremo in silenzio o immobili. Non consentiremo alcun ricatto».

«Nessun ricatto» è anche quello che ripetono ora in fabbrica: «Non siamo e non saremo disponibili a trattare o scambiare occupazione, ambiente e salario, se non in meglio». Messaggio chiaro, inviato a Am Investco, ma soprattutto alla presidenza del Consiglio, al ministro ed al viceministro dello Sviluppo economico ed ai commissari dell’Ilva a cui ieri i sindacati tarantini hanno subito scritto.

 

Chiamata direttamente in causa il viceministro allo Sviluppo Teresa Bellanova, che nei mesi passati ha seguito passo dopo passo tutta la trattativa, mette in chiaro che il confronto tra le parti deve ancora cominciare, sottintendendo quindi che molti aspetti si possono migliorare. Anche perché una delle condizioni poste a suo tempo dal governo è che il cambio di proprietà diventa effettivo solo se i sindacati danno via libera. Lo scoglio che ora Arcelor si trova a superare insomma è notevole, la nuova rogna che tocca al governo non è da meno. Ma se la Bellanova cerca in qualche modo di placare gli animi, il ministro per il Mezzogiorno ha già alzato i toni. «E’ un percorso nuovo, capisco la preoccupazione – ha spiegato ieri sera Claudio De Vincenti – ma c’è l’impegno del governo a richiamare l’investitore agli impegni presi (10mila occupati, a salario invariato) e ad andare possibilmente oltre, confrontandosi col sindacato».

 

Sia lui che la Bellanova ripetono che non ci saranno licenziamenti e che nessun lavoratore rimarrà senza tutele reddituali e occupazionali. Ma se si guarda ad un caso abbastanza analogo, ovvero la trattativa Italia-Francia che l’altra settimana, dopo tante tribolazioni, ha portato il passaggio di Stx a Fincantieri, si vede che in quest’altra partita noi che eravamo i compratori abbiamo concesso molte più garanzie in tema di occupazione di quelle che da venditori abbiamo invece preteso da Arcelor-Marcegaglia. Due storie diverse? Certo, ed è sempre facile ragionare col senno di poi. In entrambi i casi si tratta di attività industriali che entrambi i paesi, per ragioni diverse, hanno definito strategiche. Però Parigi i suoi cantieri li ha blindati e messi in sicurezza, Roma non è riuscita ancora a fare altrettanto col siderurgico più grande d’Europa. A questo punto tutto si decide al tavolo del Mise: il governo tiene la barra dritta, perché in ballo c’è l’intervento di politica industriale più importante di questi ultimi anni, e perché ovviamente non si può permettere passi falsi. L’obiettivo è vedere se le posizione di Am Investco, e di rimando quelle dei sindacati, fanno parte della tattica negoziale o meno.

LA STAMPA

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