Il diktat del Veneto: tre delibere per disegnare la nuova autonomia
Passare dalla protesta, espressa alle urne domenica da 2 milioni e 300 mila elettori, alla proposta. È questa la sfida intrapresa dal governatore veneto Luca Zaia dopo aver vinto la scommessa del referendum. Da Palazzo Balbi, la sede della Regione affacciata sul Canal Grande a Venezia, il governatore lo scandisce chiaramente: «Il Veneto è pronto a diventare un laboratorio dell’autonomia». Per farlo, il presidente ha convocato di prima mattina la giunta. E ha estratto dal cassetto, già confezionate, tre delibere che rendono più chiari quali saranno contenuti, tempi e risorse della trattativa con lo Stato.
La proposta di negoziato
La prima delibera istituisce una sorta di Consulta per l’autonomia. «L’obiettivo – spiega lo stesso Zaia – è riunire tutti gli stakeholders rappresentativi del sistema Veneto, compresa l’Anci (l’associazione dei Comuni, ndr), e raccogliere spunti da portare al tavolo con il governo». Ma la Regione, forte della legittimazione popolare ricevuta, ha fretta: il confronto tra le rappresentanze dovrebbe durare «una quindicina di giorni». Poi si va a Roma. «Idealmente per i primi di dicembre», assicura il governatore. Ai tavoli ministeriali, dunque. Ma con cosa? E qui entra in scena la seconda delibera che è il fulcro della proposta di Zaia: un disegno di legge regionale che contiene tutte le 23 competenze su cui verterà la trattativa.
Si va dalla sanità alla gestione delle strade (il Veneto vorrebbe, tra le altre cose, rilevare i 700 chilometri ancora gestiti dall’Anas), passando dall’istruzione (compreso il personale docente e amministrativo). Senza dimenticare la tutela dell’ambiente, dei beni culturali, i rapporti internazionali e con l’Europa. L’obiettivo del «laboratorio Veneto» è creare una sorta di Regione differenziata. «Una cosa a metà tra le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale», spiega Luca Antonini, 54enne professore di diritto costituzionale a Padova e uno dei due estensori, con il collega Mario Bertolissi, del disegno di legge d’iniziativa regionale.
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Le disparità denunciate
Il modello resta, nelle intenzioni, quello del vicino Trentino Alto Adige. «Come è possibile – si chiedono i legislatori nelle 37 pagine da sottoporre a Roma – che la spesa pubblica per cittadino della provincia autonoma di Bolzano sia di 8.964 euro, quella di Trento di 7.638 euro, mentre quella veneta sia ferma a 2.741?». È per questo che il Veneto punta a mantenere sul territorio 9/10 del gettito riscosso. Vuol dire 9/10 di Irpef, Ires e Iva. Come fanno le province autonome di Trento e Bolzano appunto (tranne per l’Iva che è a 7/10). «Trattenere le risorse dove si produce maggiore ricchezza sarà un volano per lo sviluppo del Paese e aiuterà a diminuire gli sprechi nelle regioni meno virtuose», spiega Antonini. Che fa i calcoli: «Si parla di almeno 10 miliardi di risorse che resterebbero in Veneto». Non bruscolini, considerato che la manovra in via di approvazione vale, al momento, 20 miliardi di euro.
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La legge, nelle intenzioni della Regione veneta, vuole far diminuire il residuo fiscale, cioè la differenza tra quanto un territorio versa in imposte dallo Stato centrale e quanto ne riceve indietro in servizi (per il Veneto le ultime stime, del 2015, parlano di 15 miliardi). Non contento Zaia ha presentato una terza delibera. Un altro disegno di legge con un solo articolo che vuole modificare il primo comma dell’articolo 116 della Costituzione: «Dopo le parole Valle d’Aosta/Valléè d’Aoste sono aggiunte le seguenti: “e il Veneto”». La Regione, in parallelo ai negoziati, punta alle «forme speciali di autonomia» già previste per quelle a statuto speciale. Una mossa di Zaia per alzare la posta? O un modo per dichiararsi di nuovo vittima dello Stato centrale quando la terza via sarà bocciata da Roma? Fatto sta che questo Veneto non è più quello raccontato negli anni ’50 da Guido Piovene. «Una regione che non dà noie al Parlamento», scriveva in “Viaggio in Italia”. Nel 2017 non è più così, la sfida a Roma è diventata istituzionale.
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