Shoah, Mohamed Helmy è il primo arabo “Giusto fra le nazioni”
Un quadro con la foto di Mohamed Helmy durante la cerimonia in suo onore all’Accademia Auswärtiger Dienst a Berlino
Un arabo insignito del massimo riconoscimento previsto da Iad Vashem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, per aver aiutato una famiglia di ebrei mettendo a repentaglio la propria vita durante il nazismo. E’ quanto ha sancito ieri una cerimonia ufficiale al Ministero degli Esteri tedesco di Berlino alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Germania Jeremy Issacharoff e di un parente dell’eroe egiziano Mohamed Helmy, deceduto nel 1982. Il titolo di “Giusto fra le nazioni” riconosciuto ad Helmy viene concesso a coloro i quali abbiano aiutato degli ebrei a salvarsi, nel periodo della Shoah, mettendo a rischio la propria incolumità e senza chiedere nulla in cambio (gli italiani insigniti finora sono 682). Fra i 26.513 “giusti” selezionati dopo attente disamine dalle autorità di Iad Vashem nel corso degli anni non c’era stato finora nessun arabo: Helmy è dunque il primo ad avere una pianta nel cosiddetto “Giardino dei giusti”.
La vicenda comincia nel 1922, quando Mohamed Helmy lascia il Sudan (allora Egitto sotto il controllo britannico) per andare a studiare medicina a Berlino. Divenuto urologo presso il Robert Koch Institute della capitale, Helmy viene però espulso in quanto “non ariano” dopo la salita al potere dei nazisti. Nel 1941 nasconde la ventunenne ebrea Anna Boros in una casupola del quartiere di Buch, prendendosene cura fino alla fine della guerra. «La Gestapo sapeva che Helmy era il nostro medico di famiglia, e sapevano di questa sua baracca nella zona di Buch», ha ricordato Boros, che dopo la caduta del Terzo Reich ha cambiato il proprio cognome in Gutman, «quando lo interrogavano rispondeva in modo evasivo, e se temeva dei sopralluoghi a Buch mi portava da amici dicendo che ero una cugina di Dresda. Gli sarò sempre riconoscente». Con l’aiuto di Frieda Szturmann, una tedesca anch’essa insignita del titolo di “giusto fra le nazioni”, Helmy aiutò anche tre parenti della Gutman, con cui la sopravvissuta emigrò negli Stati Uniti dopo la guerra.
Il riconoscimento di Iad Vashem ad Helmy scrive un capitolo importante del tormentato rapporto fra il mondo arabo e la memoria dell’Olocausto. La stessa famiglia di Helmy, contattata per la prima volta dal Museo nel 2013, aveva fatto sapere dall’Egitto di non voler avere nulla a che fare con un’istituzione israeliana che si «arroga indebitamente il diritto di rappresentare tutti gli ebrei del mondo». Ci sono voluti quattro anni per trovare un discendente di Helmy disponibile a ritirare il premio. Vista come causa diretta della fondazione dello Stato di Israele, e quindi per esteso della “Nakba”, la “tragedia” palestinese del 1948 quando 700.000 arabi dovettero abbandonare la Palestina, la Shoah non viene insegnata nelle scuole del mondo arabo.
Soltanto nel 2014 un leader palestinese, lo stesso Abu Mazen che nella Mosca degli anni 80 aveva firmato una tesi di dottorato negazionista, riconobbe per la prima volta la Shoah, definendola «il più atroce dei crimini». Come ha scritto su “Haaretz” Robert Satloff, autore di un libro che cita esempi di “giusti” arabi nel Marocco occupato dalla Francia di Vichy e nella Tunisia occupata dai nazisti, non stupisce che fino ad oggi non ci fossero arabi nel giardino di Iad Vashem: «è un mondo in cui non conveniva rivendicare la protezione degli ebrei, dopo la guerra».
LA STAMPA