Macron l’europeista e la saggezza perduta della sinistra

di EUGENIO SCALFARI

IL NOSTRO giornale di ieri ha pubblicato un ampio articolo di Jürgen Habermas, uscito pochi giorni fa su Der Spiegel, il cui titolo è: “Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa”. E quali sono le false idee sull’Europa secondo Habermas? Quelle che emergono a Berlino nelle classi dirigenti e nella pubblica opinione: le istituzioni europee debbono restare così come sono; sovranismo delle Nazioni confederate, sulle quali prevale la forza della Germania che è il Paese più importante dal punto di vista geopolitico e da quello economico.

La Germania ha da tempo superato la sconfitta subita nella guerra mondiale che cominciò nell’autunno del 1939 e terminò nel ’45. Sono passati 72 anni da allora e il tempo corre con una velocità molto notevole. Perciò la sconfitta è stata dimenticata, le responsabilità della guerra sono anch’esse dimenticate.

Hitler di certo non è dimenticato, la strage dei campi nazisti nei quali furono uccisi milioni di donne, uomini, bimbi e vecchi, è sempre presente nella memoria dei tedeschi ma la Germania di oggi è un Paese diverso, certamente democratico; perciò non ha nulla a che vedere con ciò che avvenne quasi un secolo fa. Questo pensano tutti i tedeschi ed anche tutti gli europei e il mondo intero: la Germania d’oggi è un’altra e per fortuna è con quella che dobbiamo parlare.

C’è però un problema tutt’altro che secondario, che Habermas ha individuato e al quale ha dedicato gran parte del suo articolo. Il problema è Macron e il suo europeismo. Finora l’europeismo non era un tema francese, al contrario. La Francia non è mai stata europeista, anzi è stata l’avversaria dell’europeismo. De Gaulle uscì perfino dalla Nato. In seguito, quando tutta l’Europa decise di darsi una Costituzione che avrebbe finalmente realizzato la Federazione analoga a quella degli Stati Uniti, con un presidente della Repubblica dotato di pieni poteri di governo, il compito di presiedere quel gruppo di lavoro fu affidato al francese Giscard d’Estaing, con vice presidente l’italiano Giuliano Amato. Una volta terminato il lavoro il documento fu inoltrato a tutti gli Stati membri dell’Unione europea per l’approvazione e quindi la messa in opera per realizzarla. Gli Stati l’approvarono salvo la Francia e l’Olanda che indissero un referendum in proposito e la Costituzione preparata dal quel gruppo di lavoro fu bocciata dal popolo francese e olandese. Naturalmente la Francia rimase isolata in Europa ma questo era l’umore dei suoi cittadini elettori.

Per rompere l’isolamento fu trovata una furbizia diplomatica: redigere un Trattato che avrebbe accolto gran parte dei temi contenuti nel progetto costituzionale sotto forma non di regole anzi esclusivamente di principi. Si chiamò il Trattato di Lisbona poiché era stato redatto nella capitale portoghese ed è tuttora vigente ma i principi non sono impositivi. Gli Stati dell’Unione, se vogliono, possono attuare quei principi, ciascuno a suo modo. Siamo quindi ben lontani da una Costituzione. Habermas si è innamorato delle proposte di Macron in materia.

Macron si è presentato come europeista fin da quando si aprì la battaglia per la presidenza francese ma sembrava allora una delle tante dichiarazioni d’opinione d’un programma con il quale Macron riuscì ad eliminare al primo turno Marine Le Pen e il suo europeismo fu una delle carte che lo aiutò a vincere. Sembrava però che fosse appunto una specie di tema elettoralistico anche perché la Germania non era ancora arrivata alle proprie elezioni politiche e quando si parlava d’Europa federata Merkel non apriva bocca, non diceva né sì né no. Ma in questi giorni Macron ha ripreso la battaglia europea che anzi sembra diventata il suo principale tema di riferimento.

Habermas è anch’egli a favore dell’Europa federata tanto più oggi in quanto il suo Paese, sempre guidato da Merkel ma alleato e quindi condizionato da partiti antieuropei, rende il tema più che mai attuale e quindi è completamente allineato con Macron il quale a sua volta ha alle spalle un Paese che ha guidato l’Europa nella politica, nell’economia e nella cultura, dai tempi del Re Sole e poi di Napoleone I e Napoleone III. Le classi dirigenti di tutto il nostro continente avevano come lingua franca il francese e i valori dopo la grande Rivoluzione diffusi in tutto l’Occidente erano quelli che i francesi avevano definito: liberté, egalité, fraternité.

Macron certamente sa che l’Europa d’oggi avrà come vertice la Francia e non la Germania e neppure la coppia dei due Paesi insieme. L’Italia deve certamente far parte di questa campagna europeista ed è stata anche la politica europeista del Partito democratico da quando fu fondato da Prodi (l’Ulivo) poi da Veltroni (Partito democratico) e infine anche da Renzi quando trovava il tempo di occuparsi dell’Europa e che oggi, a dire il vero, non trova più. Perciò, per quanto mi riguarda, dico anch’io con Habermas: evviva Macron.

Anche l’Italia come quasi tutte le altre nazioni europee sta migliorando la sua economia: il reddito, gli investimenti, i consumi, le esportazioni ed anche l’occupazione (precaria). Lo dice il nostro ministro delle Finanze, lo dice la Commissione europea e — quel che più importa — lo dice il presidente della Bce, Mario Draghi. Il miglioramento rispetto all’inizio della crisi nel 2008, e importato dalla vera catastrofe americana del 2007, è più lento degli altri Paesi ma c’è. Molti economisti dubitano che esso continui, è temporaneo ma forse tra qualche mese si arresterà. Personalmente non condivido questa tesi ma certo il governo non deve commettere errori che siano gravi e che capovolgano il ciclo.

È difficile però che un Paese ingovernabile abbia un’economia in buona efficienza. Questa ipotesi di ingovernabilità dovrà essere superata. Come? Con alleanze abbastanza solide negoziate prima o dopo le imminenti elezioni. Ma la situazione è tale da rendere impossibile che avvengano prima: sarebbe un handicap elettorale per tutti. E tuttavia il quadro delle forze in campo parla chiaro e vale la pena di esaminarlo.

Cominciamo dai 5 Stelle. Sappiamo che per loro le alleanze non debbono farsi, sperano di vincere da soli ma certo non ottenendo il 51 per cento dei voti come è necessario sia alla Camera sia al Senato ma con l’obiettivo di essere comunque il partito vittorioso rispetto agli altri. Stando ai sondaggi che registrano la realtà attuale potrebbero superare tutti gli altri partiti realizzando tra il 30 e il 35 per cento e non è escluso che arrivino anche al 40 ma certo non al 51. Non fanno alleanze ma Di Maio ha trovato un modo per superare questo principio che non può e non deve almeno oggi essere abbandonato: ha già detto che se riusciranno ad essere loro a fare il governo avranno come ministri pochi provenienti dal Movimento e molti presi invece tra personalità che abbiano notevole competenza nel dicastero che saranno chiamati a gestire.

Non è affatto escluso che questa trovata, abbastanza geniale, non nasconda anche un sotterfugio: i ministri più competenti possono esser presi da alcuni partiti che non hanno un’opposizione accanita contro i 5 Stelle ma possano però agganciare forze politiche minori. Una specie di alleanza non dichiarata ma effettuata. Ricorda Verdini. Per tramutare un’operazione del tipo in una alleanza sia pure indiretta è molto difficile trovare persone come Verdini. Lui è un santo e un demonio. Non se ne trovano in giro molti e dubito assai che quei pochi disposti all’alleanza indiretta con i 5 Stelle rappresentino partiti con un discreto numero di voti. In conclusione, nonostante la furbizia politica di Di Maio, i 5 Stelle potranno superare gli altri partiti ma non certo presiedere un governo.

Ed ora passiamo alla Lega di Salvini (probabilmente insieme a Meloni, la quale viene data tra i 4 e i 5 punti). Alla Lega viene attribuito tra il 14 e il 15 per cento più il 5 di Meloni si arriva al 20. Forza Italia è valutata attorno al 14-15 e perciò uniti insieme viaggiano verso il 35 per cento. Potrebbero anche arrivare al 40, più o meno come i 5 Stelle, ma anche loro ovviamente ben lontani dal 51.
La sinistra dissidente uscita dal Pd non è neppure unita. È composta da tre o quattro confraternite (non saprei come altro chiamarle per non usare la parolaccia schegge) che oscillano, se si unissero tutte insieme, tra il 10 e il 15 per cento. Sarebbe molto utile se, facendo valere la loro unione, e la possibilità che le percentuali di oggi siano leggermente più alte al momento delle elezioni, rientrassero nel partito, naturalmente come corrente molto bene individuabile. Senza porre inutili condizioni ma combattendo la loro battaglia interna di corrente e naturalmente esponendone i temi e le soluzioni sia per l’Italia sia per l’Europa poiché è indispensabile occuparsi anche dell’Unione, cosa che attualmente la sinistra dissidente non fa affatto.

Dubito molto che questa apertura avverrà, mentre credo che Renzi l’accoglierebbe. Durante la celebrazione del decennale dalla fondazione del Pd Renzi disse che concepiva un partito non chiuso ma aperto e forse alludeva a questa ipotesi. È anche vero che dopo quella giornata nella quale Veltroni fu chiamato padre del partito e quindi padre anche suo, Renzi è ritornato al “comando da solo” con tutti gli errori e le brutture che il “comando da solo” comporta. Tuttavia su questo tema di un rientro dei dissidenti potrebbe ritrovare un bernoccolo di saggezza politica.

La conclusione di questo esame di cifre politiche è purtroppo pessima: andiamo verso un Paese ingovernabile con i tre partiti maggiori che più o meno si equivalgono. Il Pd attuale è valutato tra il 25 e il 30 e quindi se non ci saranno novità o alleanze adeguate non sarà il primo ma il terzo partito, dopo la destra berlusconiana salviniana e i 5 Stelle grillini.

Ieri si è svolta a Napoli la conferenza programmatica del Pd. I programmi sono necessari e anzi indispensabili per poter essere attuati; ma se nessuno li attua ed anzi agisce al contrario di quanto previsto in quei documenti, i programmi diventano come il Trattato di Lisbona rispetto ad una Costituzione europea: affermano principi e valori e poi fanno esattamente il contrario.

Per questo mi ha dato una sensazione positiva l’intervento di Marco Minniti in quella riunione. Ha parlato di varie cose, di immigrati, sicurezza interna, Libia e della sua politica nei Paesi dove l’immigrazione è non un fenomeno di emergenza ma uno stato di fatto che durerà per moltissimi anni. Ma poi ha detto una frase che affrontava un problema di altro genere, con parole che implicitamente ponevano il tema del rafforzamento del partito e del governo e in qualche modo alludevano all’unificazione di tutta la sinistra.

Ne riporto una breve frase ma il tema era diffuso in tutto il discorso: «Da Napoli deve partire una grande passione unitaria. La sinistra senza la sfida del governo non esiste, questo è il cuore del problema. Se uno si ritira, si mette di lato, la sinistra perde se stessa e il popolo della sinistra non lo capirebbe e non lo perdonerebbe. La sfida è quella di lavorare insieme per battere la destra e sconfiggere i populismi. Adesso ho finito, abbraccio Renzi e abbraccio Paolo (Gentiloni)».

Queste sono le parole dette da Minniti alla conferenza programmatica di Napoli. I programmi sono cartapesta, bisogna attuarli. Perciò datevi da fare.

REP.IT

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