Se la Germania ripensa il legame con l’America

Michele Valensise
 

Gli osservatori e i critici della Germania si esprimono a volte con la linearità di un ottovolante. Un giorno si lamenta l’assertività di Berlino nell’imporre la sua linea soprattutto in Europa; il giorno dopo si critica la mancanza di leadership, «l’egemonia riluttante» dei tedeschi. Ora, sullo sfondo delle trattative per la formazione del nuovo governo dopo le elezioni del 24 settembre, da più parti si riflette ad alta voce sulla politica estera più raccomandabile per la Germania, in un mondo segnato da troppe crisi e minacce.

 L’attenzione si concentra sugli Stati Uniti, partner storico nella «Westbindung», il forte ancoraggio all’Occidente, che la Repubblica federale ha perseguito sistematicamente negli ultimi settanta anni, tanto da farne un cardine dell’identità del Paese: con passaggi che hanno marcato la storia recente, come la caduta di Helmut Schmidt nel 1982 per coerenza con gli impegni assunti in materia di difesa, con gli euro-missili, per contenere l’espansione sovietica di quegli anni di guerra fredda.

 

Già prima della presidenza di Donald Trump, con il mandato di Obama la politica e l’economia tedesca ragionavano sul riorientamento del focus di Washington su obiettivi lontani dall’Europa. Ma con l’elezione inattesa dell’attuale inquilino della Casa bianca il quadro è diventato più chiaro e il disagio più evidente. Angela Merkel aveva salutato il nuovo presidente degli Stati Uniti ricordandogli quanto siano importanti i legami transatlantici «come anche i nostri principi». Dopo il G7, era stata la più esplicita nel criticare la chiusura di Trump su clima e commercio, poi non aveva celato le perplessità per le idee del presidente americano su Iran e Corea del Nord. Il rodaggio di Trump è finito da un pezzo e la Germania, ormai abituata a interrogarsi sul suo ruolo nel mondo, avverte una distanza senza precedenti da Washington, mentre il ricordo del commovente ponte aereo su Berlino sbiadisce nel tempo.

 

Colpiscono comunque le voci di quanti, come l’anima politica della Zeit, Bernd Ulrich, bollano senza appello il presidente Usa come un nazionalista, simpatizzante di leader autoritari, nemico della politica multilaterale; si riafferma il bisogno, per la Germania più che per altri, del mantenimento di un ordine internazionale liberale. Il garante di quell’ordine non c’è più, «il padre se n’è andato, l’infanzia è finita». Se gli Stati Uniti attraversano oggi una regressione democratica, rifiutano la comunità globale e puntano solo sul modello nazione-potenza, allora i tedeschi devono rivedere in profondità la loro politica estera e perfino i paradigmi che fino a oggi sembravano intoccabili. Revisione graduale, sempre che Trump non spari prima.

 

Altri replicano invece che non è certo, ed è anzi improbabile, che lo smantellamento dell’ordine internazionale si realizzi come strategia statunitense e del resto una divaricazione dagli Usa pregiudicherebbe la sicurezza di Germania ed Europa: il distacco da Washington sarebbe irresponsabile. Tuttavia, con un Presidente con le caratteristiche di Trump, neanche lo status quo è un’opzione, quattro o otto anni sono troppo lunghi per attendere che le cose migliorino da sé. Secondo analisti di orientamento diverso tra loro (Schwarzer, Keller, Lagodinsky), occorre moderare gli attriti, evitare spirali, promuovere convergenze di mutuo interesse, come l’aumento degli oneri europei nel campo della difesa. Soprattutto è da scongiurare un’eventuale, nefasta, equidistanza tra Stati Uniti e Russia.

 

Intanto la Germania prende sul serio l’impegno a elevare il bilancio della difesa al due per cento sollecitato dagli Usa e quando si muoverà in quella direzione non dovremmo temere l’iniziativa dei tedeschi e, allo stesso tempo, contestarne la timidezza o l’inerzia.

LA STAMPA

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