Stipendi più alti a burocrati e pm e più bassi a medici e poliziotti
Dante aveva capito tutto: «La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende /in una parte più e meno altrove».
Perfino gli stipendi pubblici seguono la regola del Paradiso: chi vive nei cieli più vicini alla Luce, non conosce crisi, chi ne è più lontano paga pegno. Nella pubblica amministrazione la luce, manco a dirlo, è la politica.
Il rinnovo dei contratti del pubblico impiego è in piena accelerazione grazie soprattutto alla necessità della maggioranza che guida il Paese di presentasi alle elezioni con la bisaccia piena di doni. A spiegare come si è comportata la stessa maggioranza nei lunghi anni in cui il voto era una chimera ci pensano le analisi dell’Aran, l’agenzia del pubblico impiego. Utilità dell’ente per il cittadino, competenza dei suoi lavoratori, men che meno risultati: tutte variabili completamente assenti nella dinamica dei salari pubblici.
Invece, esaminando l’analisi riportata ieri dal Sole24Ore si nota una chiara costante: il potere della casta a cui si appartiene e la sua vicinanza alla guida politica sono decisivi anche per contrastare gli effetti della crisi.
Dal 2010, due anni dopo lo scoppio delle crisi bancarie, gli stipendi pubblici sono rimasti bloccati, ma in modo diseguale. Per cui l’effetto dell’inflazione ha eroso del 12,4 per cento il salario reale dei dipendenti della scuola, dell’11,8 per cento quelli dell’università, dell’1,5 per le forze di polizia, del 5,2 per cento i vigili del fuoco, del 7,1 per cento nella sanità. I segni positivi davanti al valore della variazione dei salari medi riguardano pochissime categorie, meno della dita di una mano. E seguono la regola dantesca: più sei vicino alla politica, più sei tutelato. Un esempio per tutti è il Cnel: è previsto dalla Costituzione ma è considerato talmente inutile che nell’Italia che non taglia mai un ente, è arrivato a un soffio dall’abolizione con il referendum del 4 dicembre voluto dal Pd che, sconfitto nelle urne, ha pensato bene di riprendere il controllo del feudo piazzandovi a capo un proprio storico esponente, Tiziano Treu. Qui la crisi è una chimera, un fenomeno da analizzare ma solo in teoria, perché nella pratica gli stipendi salgono sempre: del 7 per cento negli anni più bui, dal 2010 a oggi, quelli in cui tutto il resto del Paese diventava sempre più povero, e addirittura del 26,6 se si allarga l’ottica anche ai 5 anni precedenti. Lo stesso per i dipendenti i Palazzo Chigi, il cui salario medio reale è cresciuto dello 0,4 per cento negli ultimi 5 anni e del 23,5 dal 2005. Gli altri ministeri hanno «sofferto» un calo del 2 per cento dal 2010, ma se si considerano gli aumenti degli anni precedenti il segno diventa positivo dell’1,5 per cento.
Tra i burocrati intoccabili rientrano anche i dipendenti delle Authority, per i quali però il vero scudo è la maggiore autonomia concessa per statuto. Approfittando di una guarentigia che dovrebbe servire a renderli meno condizionabili, non più ricchi. E invece per loro l’aumento è continuo da dieci anni a questa parte: +10,7 per cento. Stesso discorso vale per i magistrati costretti a tirare appena la cinghia negli ultimi anni dopo averla allargata quasi del 10 per cento dal 2005. E anche negli Enti locali chi ha maggiore autonomia la usa per evitare di partecipare allo sforzo comune dell’austerity. Per dipendenti delle Regioni «normali» lo stipendio è fermo a 29.000 euro medi, per chi ha lo Statuto speciale la paga supera i 33.000.
IL GIORNALE