Raqqa, viaggio nella terra dell’Apocalisse
Un ponte sopra un torrente che scorre in un fosso, fra i canneti ingialliti dalla sabbia del deserto. È questo il limite occidentale della città fantasma, Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico ridotta a un cumulo di macerie. Da questa parte, lungo la strada polverosa, qualche bottega ha riaperto e le prime famiglie sono tornate. Di là è una terra di nessuno, dove possono entrare solo gli sminatori inviati dagli Stati Uniti.
Subito dopo il ponte, al check point delle Forze democratiche siriane, sventola la bandiera dello Ypg, i guerriglieri curdi che hanno condotto il grosso della battaglia, per oltre quattro mesi, e perso 600 combattenti, i loro «martiri». Accanto alla moschea semidistrutta, due fuoristrada sbarrano la strada. Oltre si prosegue nel quartiere di Sibahiya e poi nel centro della città moderna, dove l’Isis ha condotto l’ultima resistenza. Ma la strada è ancora chiusa. «L’Isis ha minato tutto, anche le porte delle case, le pentole, i giocattoli», conferma Danis, il comandante dell’area, in mimetica, maglioncino e scarpe da ginnastica blu. È un esercito che veste casual quello dello Ypg, ma sulla terrazza della moschea c’è ancora piazzata una mitragliatrice da 7,62, nera luccicante. Il califfato a Raqqa è finito, ma «non si sa mai».
Un’immagine satellitare di Raqqa oggi: in alto a sinistra la rotonda di Al-Naim, in basso lo stadio municipale della città
La tensione che ancora si sente, dopo una lotta così dura, non è però soltanto per il fantasma dell’Isis, che continua a uccidere dopo esser stato distrutto. I guerriglieri curdi faticano a controllare la pressione degli abitanti che vogliono entrare, a qualsiasi costo. C’è una famiglia accampata proprio davanti al check-point. Il vecchio con il copricapo a quadretti rossi e bianchi dei beduini agita il bastone e fa la faccia dura, ma poi si siede, quasi si accascia. Si chiama Mohammad Qassim, ed è lì con la moglie, una sorella e il nipotino. La notte scorsa hanno arrestato il figlio maggiore: «Era andato soltanto a vedere la casa», spiega. Non è un «criminale, devono liberarlo». Anche perché di notte la città «pullula di sciacalli, si portano via tutto, ma quelli non li fermano». I pochi commercianti del quartiere accanto, Jazira, confermano.
Le rovine nella città di Raqqa, ex capitale dell’Isis, in una foto del 28 ottobre
I combattenti stranieri
La più combattiva è Fatima Mustafa, una donna sulla cinquantina, il viso tondo, con il vestito e l’hijab neri, come gli occhi che a un certo punto si riempiono di lacrime. «La casa mia è distrutta, in quella di mio figlio non c’è più nulla, neanche l’acqua per bere». Altri però l’interrompono. La vita è durissima ma è vita, «non la morte su questa Terra come sotto Daesh», cioè l’Isis. «Abbiamo visto tante decapitazioni, mani mozzate in piazza Al-Naim», raccontano: «Qualcuno ha creato questo mostro e ce l’ha messo in testa, come a Mosul, a Deir ez-Zour, sono venuti da tutto il mondo a massacrarci, noi di Raqqa non c’entriamo nulla». Tutti i capi, spiegano, erano stranieri, e anche la manovalanza più fanatica: «Almeno il 70 per cento: maghrebini, tunisini, sauditi, europei, anche americani, e tantissimi ceceni e russi», cioè combattenti dell’Asia centrale ex sovietica, uzbeki e tajiki, che qui come a Mosul hanno condotto una resistenza accanita e suicida. Ma non tutti.
La battaglia si è chiusa due settimane fa con un accordo fra i curdi e i combattenti stranieri rimasti, circa trecento. Si sono arresi in cambio – anche se non è la versione ufficiale – di un salvacondotto verso le ultime zone ancora in mano allo Stato islamico, a valle lungo il fiume Eufrate. Il timore che possano in qualche modo tornare nei Paesi d’origine, anche in Europa, è elevato. L’ultima fase della guerra al Califfato sta scardinando tutte le frontiere. Da Ovest avanzano le forze governative e assediano i quartieri ancora in mano all’Isis di Deir ez-Zour; da Raqqa, verso Sud-Est, premono le Forze siriane democratiche guidate dai curdi; da Est sono l’esercito iracheno e le milizie sciite ad attaccare verso il confine fra Siria e Iraq e le città di Al-Qaim e Al-Bukamal. È una morsa tremenda, che schiaccia anche centinaia di migliaia di civili in fuga da tutto, dagli islamisti, dagli sciiti, dai governativi.
Siamo di fronte a una «catastrofe umanitaria», conferma Angélique Muller, coordinatrice delle emergenze per Medici senza frontiere nel Nord della Siria. «Solo nei primi sette mesi del 2017 un milione e mezzo di persone hanno dovuto lasciare le loro case», a un ritmo mai visto in sette anni di guerra pure durissima. L’impatto è stato devastante verso la fine della battaglia di Raqqa e con l’inizio delle nuove offensive. «Due settimane fa – continua Muller – nel campo di Ain Issa c’erano 7 mila rifugiati, oggi sono 22 mila». Ma la maggior parte dei nuovi arrivi non sono dalla Siria. «Stanno arrivando migliaia di iracheni. All’inizio non capivamo poi è emerso un fenomeno sconvolgente: questa gente, sunnita, scappa dalle milizie sciite irachene, arriva fin qui per poi proseguire lungo l’Eufrate fino al confine con la Turchia, poi si sposta di nuovo verso Est in territorio turco e cerca di entrare nel Kurdistan iracheno».
Un esodo biblico che si spiega soltanto perché il Kurdistan «è ancora considerato l’unica zona sicura per i sunniti in Iraq», nonostante lo scontro con il governo centrale iracheno delle ultime settimane. La guerra all’Isis ha lasciato in macerie anche gli Stati, la Siria e l’Iraq, non solo Raqqa. Il fanatismo sunnita ha massacrato sciiti, cristiani, curdi, yazidi. Ora i sunniti temono la vendetta sciita. «Assistiamo persone che sono dovute scappare due, tre volte, arrivano da tutta la Siria, anche dalle zone ora sotto controllo turco, come Idlib», continua Muller. Il Kurdistan siriano, il Rojava, è diventata l’ultima spiaggia per tutti, ma è poverissimo, «non ha nulla da offrire» e soprattutto «non ha più un sistema ospedaliero». Fin dove possono, sopperiscono le Ong, come Msf.
I campi
L’amministrazione locale messa in piedi alla meglio dai curdi del Pyd, il braccio politico dei guerriglieri, è «sopraffatta» da una crisi che metterebbe alla prova uno Stato solido. Nel campo principale di Ain Issa i funzionari che distribuiscono i buoni pasto urlano sempre più nervosi. Scandiscono nome e cognome e poi: «Min wein enta?», tu da dove vieni? La risposta che arriva dalla fila interminabile davanti allo sgabuzzino che funge da ufficio è quasi sempre «Iraq». Dalla zona di Al-Qaim, soprattutto, ma anche da province più lontane, come Salahuddin, Diyala. Sono i disperati in cerca di un porto sicuro che non esiste più in questo Medio Oriente scardinato dalle guerre. Anche i due Kurdistan, quello iracheno e quello siriano, sono sotto assedio, pressati dalla Turchia, e dai governi di Baghdad e di Damasco dominati dagli sciiti e alleati dell’Iran.
L’esercito iracheno sta per prendere il posto di frontiera che collega i due Kurdistan, Fish Khabour. A quel punto i rifornimenti di armi per i guerriglieri, ma anche gli aiuti umanitari, saranno molto più difficili. I curdi siriani non ci vogliono pensare. Hanno un loro progetto, senza mezzi ma pieno di idealismo, anche se condito da una dose di marxismo-leninismo. In ogni caso all’opposto di quello dell’Isis. Parità fra donne e uomini, anche nell’esercito, e tante scuole, per tutti i bambini. Nel campo di Ain Issa è il primo giorno dell’anno scolastico, sotto la tende certo, ma si festeggia comunque assieme agli insegnanti. Per molti bambini fuggiti da Raqqa è la prima volta in assoluto, alcuni hanno anche dieci anni. Sotto il califfato c’erano solo lezioni di jihad e istruzione a uccidere. Ora questi bambini inzaccherati dal fango ballano in circolo e cantano. Non hanno più nulla, solo fame e freddo, ma per un’ora possono ridere felici.
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