Artissima, l’arte cerca casa in un mondo devastato dall’uomo

giulia zonca
torino

Fine delle provocazioni, ridotte al minimo le trovate strappa reazione immediata, esaurite le proteste urlate e praticamente estinta la realtà virtuale. Nella settimana in cui Torino diventa capitale dell’arte, la fiera che dovrebbe trainare questa vitalità creativa, e che iniziava a faticare a tenere il passo, si libera di molte zavorre. Artissima cambia direzione, in tutti i sensi, e cerca casa. Lascia la sicurezza, pure quella dell’informale a tutti i costi, si confronta con una natura irrequieta e prova a costruire un habitat diverso. Anche perché è probabile che dall’anno prossimo si traslochi proprio dal Lingotto.

 Nuova guida, è la prima edizione gestita da Ilaria Bonacossa che ha seminato ogni sessione di lavori firmati da artiste donne «non è poco e non è frequente» e ha tentato di stanare i galleristi, spesso abituati alla comfort zone. I nomi noti ci sono e il dichiarato omaggio all’arte povera aiuta ad avere dei punti di riferimento. Però dal numero di case, di edifici immaginati per un presente instabile, di città ideali, di natura da abitare in qualche modo intelligente prima che ci dia lo sfratto, emerge chiaro il bisogno di trovare un posto dove stare. Possibilmente bene.


Si prova di tutto. Il confronto con il paesaggio è ormai davvero complicato e Teng Dixin, un artista cinese di trent’anni, ci rinuncia con catastrofica ironia. Si arrende al mare che ha davanti, alla montagna che lo sovrasta ed entra in acqua con uno zaino di pietra. Del resto gli alberi delle gallerie a fianco non prometto nulla di buono: ci sono quelli imbiancati di Andrew Dadson, quelli deperiti di Paola De Petri, il tronco incastrato sulla pelle bagnata di Giuseppe Penone. Ogni tentativo di simbiosi viene respinto e una passeggiata rigenerante a piedi nudi nel parco non sembra un’opzione. C’è anche l’apocalisse, ovvio, non manca mai e il giapponese Kudo l’ha chiusa in una scatola con quel che resta del nostro cuore trafitto dalle radiazioni e ha lasciato un pene fossilizzato appeso al muro tanto per ricordarci esattamente quanto possono colpirci nel nostro intimo le smanie di potere.

Gli artisti denunciano senza usare linguaggi forti, trovano dei simboli poetici: Tomaso De Luca si inventa brocche rovesciate in cui cercare argento luccicante per richiamare il disboscamento. È bastato lanciare delle monete d’oro nella foresta e pur di trovarle qualcuno ha pensato bene di raderla al suolo. Rasheed Araeen prova a rispondere con un Sempreverde, ma c’è un’autostrada pure lì.

Il rapporto con l’esterno è compromesso, va riconquistato, ritrovato un equilibrio solo che prima serve una casa, persino un rifugio. Si riparte dalle basi: costruire un posto che regga al disordine. La polacca Joanna Potrovska, nata nel 1985, si rintana proprio. Chiede ai conoscenti di organizzare uno spazio protetto. Loro accatastano sedie, si riparano sotto i tavoli e lei scatta, ma questi bunker sono fatti di oggetti familiari, di soprammobili comprati in vacanza, di tessuti cercati per ogni dove, di design pagato per sentirci meglio. In quelle tende improvvisate nel salotto si può pure vivere davvero fino a che non ci si rende conto di aver definito da soli uno spazio minimo pur di non avere paura. La claustrofobia avanza. Non va.

Altro tentativo. Simone Mussat Sartor si sceglie addirittura un angolo come unico punto di vista e chiama il collage di foto Corner, asserragliato su una scala del museo della fotografia di Amsterdam vuole immortalare l’assenza, l’istante in cui dal brusio dei visitatori in fila si passa al silenzio. Solo che quel momento, a sorpresa, non esiste e l’artista continua a trovare ombre in arrivo, mani appoggiate alla balaustra, echi di presenza lì dove credeva di vedere il vuoto. E sono buone notizie: ci tocca interagire, non sappiamo come fare pace con la natura ma siamo molto meno solitari di quanto pensiamo.

Si torna alla fase progettuale con i tentativi di Christo di impacchettare il mondo e l’architetto cubano Carlos Garaicoa che inscena dialoghi tra palazzi. L’israeliano Yuval Yairi racconta l’infinito servizio militare con spille sulle cartine e fili tracciati sui campi. Si immagina spettatore neutrale di una zona che ha dovuto curare ossessivamente. Prove di vivibilità dove c’è chi si ribella e ridisegna un proprio spazio a partire dai vestiti che indossa. Come Zohra Opoku che si mimetizza con i suoi abiti tradizionali tra le canne. Da qualche parte bisogna pur iniziare a ritrovare la sintonia perduta.

LA STAMPA

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