Le nostre periferie degradate
Per una ragione insignificante — aspettavo la riconsegna dell’auto portata in un’officina per una revisione — la settimana scorsa mi sono trovato a passare alcune ore in una periferia di Roma. Neppure così lontana — prima del Grande Raccordo Anulare per intenderci — ma a me totalmente sconosciuta.
Rispetto a Torino, a Milano o anche a Napoli, Roma, come si sa, ha questa caratteristica: è sorta nel vuoto della «Campagna» e di una zona costiera scarsamente abitata. Storicamente non sono mai esistiti intorno Roma quegli agglomerati tipo Settimo Torinese, Sesto San Giovanni, Portici, che con il tempo sono venuti formando un tutt’uno con la città quasi senza soluzione di continuità. A Roma no. A Roma ancora oggi quasi sempre la periferia della città amministrativa non finisce in un altro centro. Finisce e basta. Nei prati, nei campi delle discariche e di qualche baracca, nei terrains vagues. Dopo le case c’è il nulla: proprio come nella periferia dove io mi sono trovato in una luminosa mattina di ottobre.
Era con ogni evidenza un quartiere di piccola borghesia, giovani coppie, comunque gente di redditi modesti. I marciapiedi dissestati, le sterpaglie un po’ dappertutto, qualche alberello stento, i cassonetti dell’immondizia sbilenchi e mezzo bruciati; e naturalmente ogni muro imbrattato dalle solite scritte smisurate. Il silenzio e la solitudine era ciò che più colpiva.
Nelle vie abbastanza grandi, tra i palazzi di nuova costruzione — neppur troppo brutti e opprimenti per la verità, spesso con dei grandi spazi interni — a metà mattinata non c’era nessuno, letteralmente non anima viva. E del resto perché avrebbe dovuto esserci qualcuno? A fare che cosa? A perdita d’occhio, infatti, non si vedeva un ufficio, un’insegna, un negozio, niente. A provvedere alle necessità d’ogni giorno bastavano evidentemente i due o tre supermercati che s’incontravano un paio di chilometri prima sullo stradone che portava da quelle parti. Dove i locali commerciali non mancavano, ma tutti irrimediabilmente vuoti: alcuni ancora con le scritte stinte e i resti degli arredi, testimonianza di altrettanti tentativi andati a vuoto. Facevano eccezione una farmacia e poco più in là uno strano posto — forse il magazzino di un grossista — attraverso le cui vetrine si vedeva un numero incredibile di sedie a rotelle, girelli, stampelle canadesi e attrezzi simili. Solo molto lontano, sotto una specie di porticato, un bar addossato a una fermata d’autobus con due tavolini di plastica davanti. Insieme il bar e la fermata sembravano quasi come l’unico avamposto rimasto della civiltà, il solo tramite sopravvissuto verso il mondo remoto della città. La tabella della fermata indicava l’ultima corsa per le 21. Dopo quell’ora la solitudine di quelle strade, di quei palazzi, si tramutava evidentemente in un isolamento simile alla prigionia. Da lì per chi non possedeva un’auto o un motorino era impossibile muoversi, andar via. Ma che cosa diventavano quei luoghi — era impossibile non chiedersi — quando calava la notte? Quali sensazioni provava l’ultimo passeggero che scendeva dall’ultima corsa? Che cosa poteva fare lì la sera chi aveva vent’anni? Una risposta la suggerivano i distributori di preservativi e di sigarette rispettivamente fuori dalla farmacia e dal bar: entrambi blindati, saldati al muro con delle spesse sbarre d’acciaio.
Quanti uomini politici, mi sono chiesto, hanno mai messo piede da queste parti, da soli e magari di notte? Ma anche quanti di noi che abitiamo da sempre in una città ne conosciamo soltanto una parte, sempre e solo quella più comoda, più rassicurante? Forse il primo compito di un sindaco dovrebbe essere proprio quello di far conoscere ai cittadini la loro città per intero. Anche perché le cose che in essa non vanno non sono equamente distribuite tra le sue parti, e non basta leggerle sui giornali. Vista da una periferia, sia pure per poche ore ma in prima persona, ogni questione appare con contorni più netti, ogni problema acquista un’altra misura.
Diventa innanzi tutto più netta e tangibile la questione — dobbiamo ancora oggi adoperare questa parola — dell’ineguaglianza. Che, superata una certa soglia, produce una rottura violenta di quel sentimento di giustizia che vive entro noi e ci serve a mantenere il rispetto di noi stessi. Allorché per l’appunto l’ineguaglianza diventa ingiustizia. Determinare la soglia di cui sopra non è facile, certo. Ma è anche vero che forse abbiamo abbandonato con troppa disinvoltura l’idea di «giusta società» senza la quale una democrazia appassisce e probabilmente muore. È stato positivo, ad esempio, aver tolto ai Comuni la risorsa dell’imposta sulla proprietà della prima casa, l’Imu, favorendo così il degrado dei centri urbani? E dunque condannando centinaia di migliaia di nostri concittadini a vivere ancor più non dico nella miseria, ma nello stato di deprivazione sociale e culturale, di solitudine esistenziale, di assenza di servizi e di stimoli, quale è quello che caratterizza (di certo non sempre per colpa degli amministratori) quasi tutte le nostre periferie urbane? E ancora: è giusto che dall’abbandono di tali periferie risulti poi una drammatica disparità di occasioni per quei giovani italiani che essendovi nati troveranno mille ostacoli in più per costruirsi un futuro simile a coloro che invece hanno avuto la fortuna di nascere e crescere altrove?
Non si tratta solo di giustizia a favore di una parte, ma del futuro di tutti noi. Si tratta di decidere, infatti, se vogliamo che le nostre città restino schiacciate nella morsa micidiale del degrado delle periferie da un lato e della distruzione dei centri storici a opera della barbarie turistica dall’altro. Se vogliamo intristire sullo sfondo di una scena urbana irriconoscibile e incarognita o se invece vogliamo continuare a vivere nei luoghi che hanno assistito alla nostra storia fino alla giovinezza di molti di noi, se vogliamo che ne continui lo spirito, l’atmosfera, la profonda sostanza umana, e in mille luoghi la bellezza suprema.
Di deciderlo eventualmente anche contro il nostro interesse immediato. Proprio a questo, del resto, dovrebbe servire la politica democratica. A correggere il naturale (e in certa misura opportuno) egoismo individuale concentrato sull’oggi, per favorire l’interesse generale, sia quello presente che quello più lontano nel tempo. Dunque guardando più oltre, pensando in grande, e, poiché è necessario, magari obbligando tutti, ma proprio tutti, a pagare le tasse.
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