Un voto che non risolve il rompicapo della politica
Una ricerca condotta sui volti degli atleti mentre ricevono la medaglia olimpica ha accertato che i terzi arrivati sono di solito più felici dei secondi. Perché loro hanno raggiunto il podio, strappandolo al quarto, mentre le medaglie d’argento non riescono a darsi pace di aver mancato la vittoria per un pelo. Questa sensazione si chiama «deprivazione relativa», ma si può applicare alle elezioni siciliane solo a metà. È certo infatti che per i Cinquestelle il secondo posto, che pure li conferma primo partito sull’isola e premia Cancelleri, capace di attrarre molto «voto disgiunto» di sinistra, sia in realtà una sconfitta: era stata presentata come la prova generale delle elezioni politiche, e la spallata non c’è stata. I Cinquestelle volevano dimostrare a Palermo che la vecchia classe politica era defunta, e che erano rimasti solo loro: li ha battuti uno stagionato ex missino, con il patrocinio dell’ultra ottantenne Berlusconi. Le recriminazioni un po’ scomposte sul voto «contaminato» e la fuga improvvisa di Di Maio dal duello tv con Renzi la dicono lunga su quale sia il vero stato d’animo da quelle parti.
Ma altrettanto certamente Renzi non può trovare motivi di conforto per il suo terzo posto nell’insuccesso elettorale degli scissionisti alla sua sinistra. Da oggi infatti, e per la prima volta da quando è asceso alla guida del Pd quasi quattro anni fa, non è più l’uomo solo al comando della corsa politica, non è più la lepre, anzi non è neanche più nella coppia di testa. L’assunto stesso sul quale aveva basato prima la sua scalata al potere e poi il suo potere, e cioè che solo lui avrebbe potuto domare e vincere il populismo a cinque stelle, è stato smentito definitivamente dalla Sicilia. Oggi il centrodestra, vincente a Palermo e in testa in tutti i sondaggi nazionali, può ragionevolmente sostenere, anche in Europa, di avere le chance migliori per impedire che a Palazzo Chigi vada un grillino.
La «deprivazione» che Renzi subisce in Sicilia è quindi più assoluta che relativa, perché tocca il nocciolo della sua narrazione; più ancora del risultato referendario, dove almeno era arrivato secondo e i vincitori erano troppi. Resterà leader del suo partito: a pochi mesi dalle elezioni un colpo di mano interno sarebbe un suicidio che nemmeno il Pd è capace di fare. Però la sua linea è ormai fallita, e infatti dopo aver predicato e praticato per anni lo splendido isolamento del Pd, ora si affanna a cercare una coalizione purchessia. Ma intanto la sua capacità espansiva, di allargare il campo, si restringe ogni volta di più: prima ha perso la sinistra per scissione interna, poi ha litigato con Grasso, ora in Sicilia ha smarrito anche il centro di Alfano e la soluzione «civica» alla Leoluca Orlando, deludenti nella loro roccaforte elettorale (Micari ha preso quasi il 9% in meno della coalizione). D’altra parte Renzi da solo non vince più. E se non riesce a portare il centrosinistra alla vittoria il prossimo anno, con un diverso candidato premier, perderà anche la leadership del suo partito, perché questa è la mission del segretario del Pd.
Risorge invece il centrodestra e sfiora la fatidica quota 40 percento, che potrebbe dargli una maggioranza anche in Parlamento il prossimo anno; e oggi tutti celebrano l’evento miracoloso dei tre partiti che litigano su tutto e poi si siedono a tavola a mangiare un arancino e vincono perché si sono uniti. Ma chi è esattamente risorto, e come si farà ripetere il miracolo alle elezioni politiche dell’anno prossimo? Berlusconi dice che a risorgere sono stati i moderati, ma la Meloni e Salvini tanto moderati non sono, e il candidato siciliano l’hanno scelto loro. D’altra parte, senza Berlusconi non avrebbero vinto mai, perché Forza Italia in Sicilia resta il cuore del centrodestra.
Ma mentre trasferire voti di destra meridionale verso il centro è più agevole, come dimostrato dall’operazione Musumeci, un arancino non basterà a trasferire i voti leghisti del nord, perché sono molto più contigui al populismo dei Cinquestelle. Su tasse, immigrati, Europa, bisognerà che il centrodestra scelga una linea, non può stare contemporaneamente con Merkel e con Le Pen. L’unità di quel mondo non è questione che si risolva spartendosi con equità i candidati nei collegi uninominali. Serve di più: l’ennesimo miracolo.
Il voto siciliano non risolve dunque il puzzle della politica italiana. Intanto perché il sistema di voto lì garantisce un vincitore anche senza maggioranza nell’Assemblea, mentre il Rosatellum prevede solo un primo arrivato. E poi perché la domenica elettorale ha confermato (anche a Ostia) che la partita si gioca ormai in uno stadio sempre più vuoto. A parte tutte le considerazioni etiche sul voto di protesta (la performance dell’Assemblea regionale siciliana degli ultimi cinque anni non meritava un pubblico elettorale più numeroso), quando va alle urne meno della metà degli aventi diritto il rischio è che si contino solo i voti delle minoranze più vocianti, e spariscano quelli del cittadino medio, meno partigiano, più pragmatico, su cui da sempre si fondano le sorti di una democrazia equilibrata e funzionante.
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