Nel campo rom di Alessio il Sinto: “Le ragazze? Se la sono cercata”
Il campo nomadi di via di Salone è un’isola di container di metallo che sorge al centro di un mare di rifiuti. Ci vivono circa seicento persone. Alcune sono censite, altre sfuggono ai controlli.
Persone che si dividono in famiglie, poi in clan, ed infine in un coacervo di etnie, spesso in conflitto tra loro. “Sono Khorakhané, da loro puoi aspettarti di tutto”, esclama una ragazza circondata da bimbi che piangono. I Khorakhané sono i nomadi musulmani originari di Bosnia e Kosovo. Lei, invece, è serba e non esita a condannare quanto accaduto a maggio in un boschetto del quartiere Collatino. Qui, secondo l’accusa, Mario Seferovic e Maikon Halilovic, due ventenni di origine bosniaca che abitavano nella baraccopoli di via di Salone avrebbero violentato due quattordicenni romane. “Dopo quello che è successo, ieri hanno arrestato anche i miei nonni per furto di energia elettrica, loro non hanno fatto nulla, ti sembra giusto?”, taglia corto la giovane donna.
Il portavoce dei rom: “Chi ha sbagliato deve pagare”
Dopo il blitz dei carabinieri, seguito agli arresti dei due ragazzi, in questo campo alla periferia Est di Roma il clima resta teso. “Non si può incolpare un’intera comunità per quello che hanno fatto due persone singole”, attacca Samir, un portavoce della comunità rom. “Chi ha sbagliato deve pagare, ma diciamo no alla giustizia fai da te: ad esempio Casapound ha organizzato una manifestazione per venerdì, abbiamo paura”, spiega. Due donne ci indicano la baracca dove abitava Mario, che su Facebook si faceva chiamare “Alessio il Sinto”. È proprio chattando sui social network che una delle due giovanissime che hanno denunciato di essere state violentate a turno si sarebbe invaghita di lui. “Quando hanno portato via Maikon e Mario, abbiamo pensato che fosse per un motorino, poi, quando abbiamo capito la vera ragione abbiamo sputato in faccia a sua madre, perché quello che è successo poteva capitare anche alle nostre figlie”, dice una delle due donne.
L’amica di Mario: “È un bravo ragazzo, si sono inventate tutto”
Arriviamo davanti alla roulotte di Mario. Sulla porta c’è il suo nome impresso in giallo con la bomboletta spray e delle frasi scritte con il pennarello. “Amore, amore, dopo ti spezzano il cuore”, recita una di queste. Dopo quello che è successo, sono parole che suonano sinistre. Appena si accorge di noi, un uomo sgattaiola veloce all’interno, chiudendosi la porta alle spalle. “La madre è andata a Regina Coeli e gli altri non vogliono parlare”, spiega un gruppo di ragazzini. “È meglio che ve ne andate”, minaccia uno di loro. “Guarda che se mi riprendi ti ammazzo”. Avrà sì e no tredici anni. Una ragazzina, però, decide di staccarsi dalla comitiva e di raccontarci la sua versione dei fatti. “Queste ragazze hanno detto bugie, Mario non stava mai a casa, lavorava tutto il giorno nei mercatini con sua madre, perché non hanno denunciato subito la violenza? Perché hanno fatto passare così tanto tempo?”. Sul suo container, disegnati con l’inchiostro indelebile, campeggiano un teschio e una pistola. “Ti piace il murales? L’ho fatto io”, dice ridendo.
L’accusa dei nomadi: “Le ragazze? Li hanno provocati”
Ma non è la sola a mettere in dubbio la versione delle due adolescenti. “Avevano una relazione di sei mesi, non è stata una violenza”, dice un’altra giovane, “veniva sempre qui al campo quella”. “Si incontravano, dormiva qui con loro”, le fa eco un ragazzo da una roulotte. “Forse è stata sua madre a mettere in giro queste voci”, ipotizza. Nel giro di pochi minuti attorno a noi si forma un cerchio di persone. Ognuno vuole dire la sua e non tutti se la sentono di condannare. “Stuprano a mezzogiorno due ragazze in un prato e nessuno li vede? Ma di cosa stiamo parlando?”, obietta un uomo. “Dov’erano i genitori di queste ragazze? Le hanno lasciate uscire liberamente di notte, anche loro hanno delle responsabilità”, attacca una donna romena. La discussione inizia a farsi sempre più animata. “Ovviamente, come si dice, chi cerca trova”, si intromette un altro ragazzo, “si conoscevano, sono usciti e alla fine è andata come è andata, ma non è che ora possiamo prendere gli zingari uno ad uno e bruciarli vivi, loro hanno sbagliato e adesso stanno pagando, sempre che abbiano sbagliato”. Ovvero? “Le ragazze hanno voluto la bici? Ora pagano le conseguenze, perché non è che le hanno prese e le hanno violentate così”. Si spiega meglio. “Loro sapevano che erano zingari, che sono come sono, sono usciti insieme una volta, due, tre, poi alla fine li hanno provocati ed hanno fatto quel che hanno fatto, è così che funziona”.
La protesta dei residenti contro i roghi tossici
Intanto, la tensione cresce anche fuori dall’accampamento. Martedì, è spuntato uno striscione con una “dichiarazione di guerra” rivolta ai nomadi. I residenti sono esasperati. Da anni sono costretti a respirare i veleni che si sprigionano dai roghi appiccati all’interno del campo. A certificare l’aumento dei livelli di diossine nell’area è arrivata anche una relazione dell’Arpa. “Il ministro Minniti ha dato l’ok all’invio dell’esercito nei campi rom capitolini, ma tutto è fermo per un cavillo”, si lamenta Paolo Di Giovine, del Coordinamento Associazioni Roma Est. Nel campo, dove i topi sono ovunque e i bimbi giocano tra l’immondizia, “le condizioni igieniche sono pessime”, denuncia Franco Pirina, del CAOP Ponte di Nona. “C’è stata anche un’epidemia di epatite, con decine di bambini ricoverati”. “A Roma ci sono delle zone franche dove non vengono rispettate le leggi”, conclude Di Giovine, “è questo che ci dà fastidio”.
IL GIORNALE
This entry was posted on giovedì, Novembre 9th, 2017 at 12:40 and is filed under Cronaca. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.