Renzi e Visco: c’è Etruria all’origine del grande gelo
Anche ieri sera le finestre di Palazzo Koch sono rimaste accese fino a tardi: da mesi ormai, quella che era una delle «sette chiese», come si chiamano a Roma le sedi istituzionali, è diventata trincea di un assedio ogni giorno più pesante. Prima, per molti mesi, le manifestazioni dei risparmiatori truffati dalle banche popolari. E adesso il bombardamento quotidiano di Renzi e dei renziani, che mirano sul quartier generale di Bankitalia per allontanare l’incubo di una campagna elettorale come quella del 2013, in cui Bersani si giocò la vittoria per via del terremoto al Monte dei Paschi di Siena.
Ad esempio, non è vero che via Nazionale voleva salvare i banchieri mentre il governo Renzi ha salvato i correntisti; perché ciò che è stato fatto per aiutare i risparmiatori rovinati da banche locali sull’orlo del fallimento, Bankitalia e governo lo fecero insieme; anzi partì dal Governatore, nel novembre 2015, l’iniziativa per evitare che a gennaio 2016 scattasse il «bail in», la tagliola imposta dall’Europa per far sì che fossero i clienti titolari di obbligazioni e di grandi depositi a pagare in parte i salvataggi degli istituti di credito semi-falliti.
Né è vero che la riforma delle popolari messa a punto dal governo Renzi non riguardava Banca Etruria, di cui il padre di Maria Elena Boschi era vicepresidente: la riguardava eccome, e soltanto dopo l’approvazione della nuova legge la banca poté essere liquidata e venduta, come Carichieti, Banca Marche e Ferrara, acquistate, si fa per dire, dati i prezzi simbolici, da Ubi Banca e Bper, con il contributo decisivo del fondo bancario di risoluzione, in pratica con i soldi delle altre banche.
Vero è invece che Visco, dall’inizio del suo primo mandato, nel 2011, aveva cominciato inutilmente a bussare alle porte dei presidenti del consiglio per convincerli a trovare una soluzione al problema delle popolari: banche piccole, medie e grandi, con legami spesso equivoci con il territorio, e amministratori che facevano il bello e il cattivo tempo e spesso soprattutto gli affari loro. Tra il 2007 e il 2015 ben settantacinque banche sono state commissariate, chiuse o assorbite da altre banche con spalle più larghe, in grado di accollarsi situazioni assai difficili. E a parte Verdini, con il suo Credito cooperativo che gli ha portato una decina di capi di imputazione e una condanna a nove anni, chi ha mandato in galera o sotto processo Mussari di Monte Paschi, Berneschi di Carige, Consoli di Veneto Banca, Bianconi di Cassa Marche, De Matteo di Tercas, oltre a papà Boschi e all’intero consiglio di Banca Etruria?
La vituperata Vigilanza di Bankitalia, processata giovedì nell’aula della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, ha fornito alle procure di mezza Italia l’elenco delle malversazioni di amministratori imbroglioni: gente che stava nei consigli di amministrazione per intestare alle mogli prestiti onerosi che non sarebbero stati restituiti; o per riempirsi le borse di contanti da portare all’estero; o per convincere clienti già traballanti a comperare azioni e obbligazioni in cambio di mutui senza garanzia destinati a imprese in default e perseguitate dai creditori.
Ma se il quadro delle popolari era così desolante e carico di incognite per l’intero sistema del credito nazionale, perché da via Nazionale non uscì una pubblica denuncia, un messaggio di trasparenza che avrebbe potuto mettere in guardia i risparmiatori traditi? Perché un banchiere centrale non fa comizi e anzi è tenuto al riserbo, è la versione istituzionale. Ma a questa domanda, ormai, Visco è pronto a rispondere davanti alla commissione d’inchiesta, sicuro di dimostrare, carte alla mano, che Banca d’Italia fece tutto quello che doveva fare – prova ne siano i processi scaturiti e le condanne fioccate in questi ultimi anni -, anche nei casi contestati da Consob della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca.
Fece anche qualcosa di più. Quel «qualcosa», l’aspetto più delicato della vicenda, riguarda il rapporto personale e professionale tra Visco e Renzi: solido nel primo anno del governo «dei mille giorni» – quando il Governatore, dopo aver preso porte in faccia dai predecessori, trovò nel giovane premier la giusta attenzione sulla riforma delle popolari, il coraggio necessario e la capacità politica di farla passare in Parlamento, trovando una maggioranza niente affatto scontata -; ma poi interrotto all’improvviso. Perché?
Su questo le bocche dei banchieri centrali sono più cucite del solito. La logica tuttavia porta a dire che la rottura tra i due avvenne sul caso di Banca Etruria. La procedura per il commissariamento di una banca, che molto spesso è l’anticamera della chiusura o della vendita, è infatti molto rigida. Il Governatore, dopo un’istruttoria basata sulle ispezioni e sulle conclusioni della Vigilanza, quando raggiunge il convincimento che il salvataggio è impossibile, scrive di suo pugno una sorta di sentenza di morte, che viene consegnata personalmente al ministro dell’Economia. Il quale, in completa autonomia, firma il decreto di commissariamento. Come negli altri casi, anche per Banca Etruria, commissariata nel febbraio 2014 e «risolta», cioè chiusa e affidata in gestione a Ubi Banca nel novembre dello stesso anno, andò così. E Padoan, su indicazione di Visco, firmò senza proferire parola. Non è dato sapere se e quando Renzi fu avvertito, certo non prima delle decisioni. Nel gruppo delle quattro popolari del Centro Italia, quella che destava più preoccupazioni era la Banca Marche, non certo Etruria. Per il premier, invece, era proprio il contrario.
Che poi sia stato questo, o esclusivamente questo, il «casus belli», che ha portato alla guerra dei dieci giorni tra Renzi e Visco – dal 17 ottobre della mozione Pd alla Camera che impegnava il governo a sostituire il Governatore, al 27 della riconferma da parte di Gentiloni e Mattarella -, c’è chi lo lascia intuire e chi preferisce svicolare. Ma allo stesso tempo, nessuno è in grado di indicare un’altra ragione del brusco mutamento di rapporti tra Palazzo Chigi e via Nazionale, con il governo che scelse subito la linea del risarcimento dei risparmiatori, incurante delle cautele suggerite dalla Banca d’Italia. Fatto sta che oggi nell’elenco dei risarciti – molti dei quali continuano a protestare perché rimborsati solo all’ottanta per cento, come se un rischio, anche minimo, non fosse connesso a
un investimento finanziario – figurano, insieme a quelli che avevano impiegato nei titoli spazzatura la liquidazione di una vita di lavoro, anche persone, risultate nullatenenti per aggirare i tetti di reddito previsti dalla legge, e risarcite per acquisti di titoli da due-trecentomila euro, presi chissà dove. Tanto che il numero dei risparmiatori traditi comincia a somigliare, per lievitazione, a quello degli esodati della legge Fornero, di cui ancor oggi s’è perso il conto.
Dopo la rottura su Banca Etruria, Renzi e Visco hanno molto diradato i loro contatti. L’ultima volta che si sono sentiti è stata poco dopo la sconfitta del 4 dicembre 2016 seguita dalla caduta del governo. S’è consumato in silenzio anche l’ultimo braccio di ferro sulla riconferma del Governatore. E dire che Visco aveva rinunciato per tempo a un secondo mandato. Sei mesi fa aveva comunicato il suo desiderio di lasciare l’incarico alla scadenza a Mattarella e Gentiloni, che lo avevano invitato a ripensarci. Poi, dopo la mozione alla Camera voluta da Renzi, ha cambiato idea. Di lì è partito il duello che finirà quando uno dei due resterà a terra.
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