Le spine asiatiche di Trump

Sappiamo che il presidente degli Stati Uniti può saltabeccare senza arrossire da una posizione all’altra e assumere contemporaneamente linee politiche difficilmente compatibili. Ne ha dato una nuova dimostrazione negli ultimi giorni durante il suo viaggio asiatico. Nel corso della campagna elettorale aveva rimproverato alla Cina il suo nazionalismo economico e minacciato rappresaglie. Ma le accoglienze riservategli da Xi Jinping nella Città Proibita lo hanno addolcito e lusingato. Qualcuno ha ricordato che nel 2012, quando era soltanto un ricco e ambizioso uomo d’affari, aveva lanciato un velenoso tweet contro Barack Obama, colpevole di avere riservato a Xi, allora soltanto vice-presidente della Repubblica popolare, una accoglienza regale. Ma ora il presidente americano dichiara pubblicamente che il popolo cinese ha il diritto di andare orgoglioso del suo leader. Anche in Giappone Trump ha denunciato l’aggressività delle aziende giapponesi; ma ha parlato entusiasticamente della solidarietà che lo lega all’America e ha salutato con piacere il prossimo acquisto giapponese di una «massiccia quantità» di materiale militare americano. Questi sbalzi di atteggiamento e linguaggio sono in parte caratteriali, in parte dettati da calcoli di politica interna. Trump è un uomo d’affari ambizioso, vanitoso e spregiudicato. Ha un altissimo concetto di sé ed è convinto che la buona politica si faccia soltanto al vertice degli Stati fra uomini forti che si annusano, si capiscono, si piacciono e conoscono il linguaggio del potere.

Ma deve anche, come ogni altro uomo politico, tenere conto del proprio elettorato. Ha conquistato la presidenza perché è stato eletto da quella parte della società americana che detestava il «liberal-socialista» Obama, si considerava vittima della globalizzazione ed era convinta che il suo Paese avesse il diritto di anteporre i propri interessi a quelli di qualsiasi altro Stato, anche se alleato o partner. Non sono sicuro che Trump sottoscriva interamente questi principi; ma è certamente convinto che questo sia il suo mandato elettorale e che niente gli nuocerebbe quanto deludere le attese dei suoi elettori. Per essere l’opposto del suo predecessore, quindi, ha denunciato, insieme al Nafta (l’accordo di libero scambio per l’America del Nord), i due grandi trattati stipulati da Obama durante la sua presidenza: quello di Parigi sul clima del dicembre 2015 e quello per il Partenariato Transpacifico, firmato il 4 febbraio 2016 a Auckland, in Nuova Zelanda, da Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Quel trattato non era soltanto un accordo commerciale. Separava la Cina e l’India dal resto del continente, creava con una buona parte dell’ Asia una comunità internazionale a cui gli Usa offrivano una preziosa condivisione di interessi economici. Non era un’alleanza militare, ma era per molti aspetti una Nato economica, concepita per evitare che la Cina divenisse un giorno la potenza egemone dell’intero continente. Non è escluso che questa comunità risorga sotto un’altra veste. A Da Nang, in Vietnam, si sono riuniti in questi giorni i leader dell’Apac (Asia-Pacific Economic Cooperation), desiderosi di non buttare via tutto ciò che era stato pattuito a Auckland. Trump li ha incontrati durante il viaggio, ma per affermare ancora una volta che il suo credo è quello della «America anzitutto».

Le cose non sono andate molto meglio sul piano politico. Trump sperava di usare il viaggio per mobilitare contro la Corea del Nord un fronte asiatico che non avrebbe escluso l’utilizzo della forza. Dal premier Shinzo Abe, desideroso di correggere il tono pacifista della costituzione giapponese, ha ottenuto un impegno a prendere in considerazione l’intercettazione dei missili-nord coreani, «se necessario». Ma il presidente cinese non intende spingersi al di là delle sanzioni e quello della Corea del Sud è noto per la sua propensione al dialogo. Con la creazione di un Partenariato Transpacifico, Obama aveva lasciato al suo successore una politica asiatica. Con la denuncia del trattato, Trump si è privato di uno strumento che avrebbe avuto tre vantaggi: contenere l’influenza cinese, favorire gli scambi americani, creare rapporti di convenienza reciproca con una buona parte del continente asiatico. Sugli interessi del suo Paese ha prevalso il desiderio di continuare a fare il contrario di ciò che aveva fatto il suo predecessore. Con il risultato che gli Stati Uniti, oggi, sono privi di una politica asiatica corrispondente alle loro dimensioni e ai loro interessi.

CORRIERE.IT

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