Il sentiero stretto sui conti

Sappiamo già come finirà. Per evitare che la manovra finanziaria sia sommersa da una marea di emendamenti, oltre 4 mila quelli già presentati in Senato, il governo chiuderà la partita in entrambe le Camere chiedendo il voto di fiducia sul suo testo, che recepirà qualche correzione suggerita dai gruppi parlamentari, senza stravolgere l’impianto della legge di Bilancio. Una legge ipotecata fin da principio dalla volontà di scongiurare l’aumento dell’Iva, disinnescando le cosiddette clausole di salvaguardia: uno sforzo che ha impegnato quasi 16 miliardi su 22 della manovra per il 2018, lasciando peraltro da cancellare l’aumento Iva negli anni successivi. Manovra che, quindi, assolto il compito di evitare un incremento delle tasse che lo stesso governo aveva fittiziamente deciso l’anno prima per rassicurare la Commissione europea sulla tenuta dei conti, lascia lo spazio di una manciata di miliardi per qualche intervento a sostegno della crescita e dei più bisognosi. Insufficienti, forse, su entrambi i fronti. Del resto, è così da molti anni, da quando l’oggetto principale della manovra è diventato l’annullamento delle clausole di salvaguardia, in mancanza della capacità dei vari governi di tagliare gli sprechi nella spesa pubblica e di incrementare in maniera significativa le entrate da lotta all’evasione fiscale che, secondo le stime dello stesso governo, sottrae ogni anno circa 110 miliardi allo Stato. Anche in quest’ultima manovra, né sulla spending review né sugli evasori ci sono novità di rilievo.

Di nuovo una legge di Bilancio senza grandi ambizioni. Un «sentiero stretto», come lo definisce il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, tra la montagna del debito pubblico da un lato e i vincoli europei dall’altro. La novità, relativa, è che la scarsità di risorse a disposizione per il 2018, anno elettorale, esaspera ancora di più il contrasto con le mille richieste che arrivano dal Parlamento. Anzi, 4 mila, quanti sono gli emendamenti piovuti in Senato sulla legge Bilancio. Un’alluvione che ha fatto scappare un «diamoci una calmata» al solitamente controllato Paolo Gentiloni. Detto che quella presentata dal governo, pur salvaguardando la tenuta dei conti, è una manovra di mantenimento, non si può dire meglio dell’azione del Parlamento. Che se davvero aspira a migliorare la legge di Bilancio, dovrebbe evitare di cedere alla tentazione delle richieste elettoralistiche o irrealistiche. E dovrebbe piuttosto concentrarsi su poche e importanti cose, altrimenti ha poco senso prendersela con il voto di fiducia che blinda la manovra.

Il governo, però, non deve utilizzare l’assalto alla diligenza come un alibi per non migliorare a sua volta i provvedimenti. Avrebbe poco senso accogliere, per esempio, le richieste parlamentari di un ulteriore allargamento della rottamazione delle cartelle Equitalia o, peggio ancora, di sanatoria sugli accertamenti in corso, fino al punto da suscitare legittime domande in chi finora ha pagato senza ritardi i propri debiti col Fisco, e poi far finta di niente su altri capitoli come l’abolizione del superticket sulla diagnostica e la specialistica che, lo ha riconosciuto lo stesso viceministro dell’Economia Enrico Morando, crea «difficoltà per i cittadini di usufruire delle prestazioni sanitarie anche nelle Regioni più virtuose», o il rafforzamento delle risorse per la non autosufficienza, oggi scandalosamente inadeguate. Insomma, «diamoci un calmata», niente «assalti alla diligenza», ma un po’ più di qualità ed equità sì, senza stravolgere l’impianto. Sentiero stretto non significa vicolo cieco.

CORRIERE.IT

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