La sinistra scioglie le Camere senza avvisare gli italiani
Cosa faranno Laura Boldrini e Pietro Grasso? La domanda tiene col fiato sospeso milioni di italiani, quasi come il prossimo ct della nazionale.
Cosa faranno non è chiaro, ma cosa non stanno facendo più è certo: i presidenti super partes delle due Camere. Il ruolo istituzionale, che richiede un minimo distacco dalla lotta politica, era già precario da mesi ma con le elezioni alle porte è saltato del tutto. Ed è facile prevedere che nell’imminente campagna elettorale i due saranno in campo come se non fossero i garanti di tutti gli schieramenti di Camera e Senato, funzione che ormai ricoprono solo formalmente, ma come esponenti di partito a tutti gli effetti.
La Boldrini, in cerca di ricandidatura, si muove come aspirante leader della sinistra a sinistra del Pd, in verità un posto molto caotico. Ha persino abbozzato un suo programma di governo (più tasse, più immigrazione, più sussidi pubblici, «un’agenda straordinaria per il Paese» si è commosso Roberto Speranza di Mdp), esterna sulle possibili alleanze come un capo di partito («Per ora non ci sono le condizioni per un accordo col Pd»), e ha avviato le consultazioni, incurante del ruolo che ricopre. Nei giorni scorsi ha incontrato i bersaniani Speranza e Arturo Scotto, poi ha avuto modo di confrontarsi con Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, quindi è stato il turno di Pier Luigi Bersani, mentre in programma c’è un faccia a faccia con Pisapia. Non solo, la Boldrini fa sapere anche quali sono i disegni di legge che dovrebbero essere approvati dal Parlamento (dettaglio: è lei a decidere il calendario della Camera dei deputati) prima degli altri. Come lo Ius soli: «Un provvedimento giusto, necessario e utile a tutti noi». Mentre bisogna cancellare i vincoli per le Ong che imbarcano i migranti: «Tornino a salvare vite umane nel Mediterraneo. Alle Ong va detta solo una parola: grazie, grazie, grazie!».
Come la Boldrini, anche il presidente del Senato Pietro Grasso è sceso in campo a pieno titolo come leader della sinistra che vuole rottamare Renzi. E lo ha fatto con un atto plateale, si è dimesso dal gruppo Pd a cui era iscritto, in polemica con l’approvazione della legge elettorale con voto di fiducia: «È stata una violenza. Lascio questo Pd perché non mi riconosco più né nel merito né nel metodo» ha detto, per poi spiegare che non è lui che esce, ma «è il Pd che da dopo Bersani non c’è più». Parlando quindi non più da seconda carica dello Stato ma da esponente della sinistra critica. Certo, a domanda diretta svicola («Voglia di fare politica? Se ci sono le condizioni. Per ora ascolto»). Ma lo scioglimento delle Camere, con i due presidenti trasformati in esponenti della minoranza, è nei fatti. Lo osserva l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli in un tweet. «Le Camere sono di fatto già sciolte visto l’impegno politico dei loro due presidenti. Se fosse accaduto a destra che cosa avremmo detto?». Protesta anche il governo. «Non trovo un precedente storico rispetto a un passaggio all’opposizione di tutti e due i presidenti delle due Camere» dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che segnala il «rischio di una distorsione di equilibri istituzionali». Forse però qualche precedente si può trovare. Quando a presiedere la Camera era Gianfranco Fini, riuscì persino a fondare un partito e a sottrarre decine di parlamentari eletti con un altro partito (il Pdl). Ma va anche aggiunto che chi ha provato ad usare l carica di presidente della Camera (o del Senato) come trampolino per la carriera politica (Bertinotti, Pivetti, Casini, Marini, Fini…) raramente ha avuto fortuna.
IL GIORNALE