Dialogo a sinistra in 5 mosse. Dallo Ius soli ai ticket, gli assi del governo
Di CLAUDIO TITO
Il dado è tratto. Lo Ius soli sarà legge prima che finisca l’anno. Pd e governo hanno deciso: il provvedimento sarà all’ordine del giorno del Senato subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio. Ossia nella prima settimana di dicembre. E Palazzo Chigi porrà la fiducia per superare l’enorme mole di emendamenti (quasi tutti della Lega).
Confortati dalla disponibilità di Mdp, dalle dichiarazioni dei verdiniani e dalla non belligeranza degli uomini di Alfano alla ricerca di un porto sicuro in vista delle prossime elezioni, Renzi e Gentiloni hanno dato il via libera ai dem di Palazzo Madama.
Lo Ius soli viene considerato il primo elemento di un pacchetto di iniziative che dovrebbe consentire al governo, come ripete spesso il premier, di chiudere «ordinatamente» la legislatura. E soprattutto permettere al leader Pd di avviare la trattativa con Mdp su un altro piano. Non più quello della leadership-premiership ma quello della piattaforma programmatica.
Si tratta di un tavolo a cinque gambe che nelle intenzioni dei “mediatori” dei due partiti aprirebbe uno spazio di confronto su aspetti più concreti. Il primo di questi è, appunto, lo Ius soli. Gli altri quattro corrono sul filo sottile delle compatibilità economiche tracciate nel decreto fiscale e nella legge di Bilancio: Pensioni, Superticket sanitari, Jobs act e Biotestamento. «Il percorso è difficile, molto difficile – ripete Roberto Speranza -. Serve una svolta vera, sui contenuti. Non basta il passo indietro di Renzi».
Il segretario dem lo ha capito. E ha deciso di provare a costruire questo tavolo programmatico a “cinque gambe” per compiere l’ultimo tentativo. Sapendo che anche dentro Mdp esiste un fronte meno contrario ad un’intesa. «Perchè – come dice Gianni Cuperlo, uno dei capi della minoranza Pd – Bersani è diverso da D’Alema. Ma serve uno sforzo. Dobbiamo tutti ricordarci quello che siamo. Noi e Mdp stavamo nello stesso partito fino a poco fa. Non è pensabile che non si trovi una convergenza sui contenuti».
Certo, un ruolo lo sta svolgendo indirettamente anche la legge elettorale appena approvata. Un sistema che favorisce le coalizioni e scoraggia la corsa solitaria. Che sta mettendo in pole position il centrodestra e sta sbattendo contro il muro dell’insucesso tutte le forze del centrosinistra. Proprio come è accaduto due settimane fa in Sicilia.
Le simulazioni stanno terrorizzando i parlamentari dem e Mdp. Una in particolare: quella che mostra gli effetti di una mancata convergenza tra i partiti progressisti. Senza un patto, le urne rischiano di trasformarsi per loro in un incubo. Basti pensare che quella simulazione prevede le macerie anche nelle regioni rosse. La concorrenza a sinistra farebbe perdere buona parte dei collegi uninominali perfino nelle roccaforti considerate più sicure. Il tutto a favore della Lega e in parte minore del Movimento 5Stelle. Uno spauracchio che sta avendo un qualche effetto.
Non è un caso che il tavolo del dialogo, sebbene molto precario, sia stato rimesso in piedi.
E se la “gamba” più importante è quella dello Ius soli, ce n’è un’altra che rappresenta una sorta di precondizione per non fare morire in culla il neonato negoziato. Si tratta del Jobs Act.
Martedì prossimo approda nell’aula della Camera, la proposta dei bersaniani di modificare la riforma del lavoro tanto voluta da Renzi. Una sconfitta formale di uno dei due fronti pregiudicherebbe definitivamente il dialogo.
Tutti ne sono consapevoli. In commissione, infatti, è stato compiuto un primo passo per evitare il naufragio. La totalità degli emendamenti abrogativi della proposta – sebbene la maggioranza aveva i numeri per farlo – sono stati ritirati. Non solo. Martedì prossimo il relatore proporrà il ritorno in commissione per un approfondimento. Un modo, normalmente, per mettere le iniziative legislative nell’armadio del dimenticatoio.
Nello stesso tempo, però, gli “ambasciatori” Pd hanno fatto sapere – con il via libera della presidenza del gruppo – ai loro interlocutori: «Torniamo a discutere e a dicembre presentiamo un emendamento alla Legge di Bilancio che tocca almeno un punto: l’indennità che viene assegnata al lavoratore licenziato». Ora varia da 4 a 24 mesi di stipendio, salirebbe a 8-36. «Ho difeso per 45 anni l’articolo 18 – dice il democratico Cesare Damiano, uno dei “pontieri” – ma quando è diventato una tutela solo per il 20 per cento dei lavoratori, ho capito che bisognava cambiare».
La “terza gamba” è correlata alla seconda. Il tema è la previdenza. In particolare l’aumento dell’età pensionabile che scatta dal prossimo anno. La Cgil contesta la proposta dell’esecutivo ed è pronta a una mobilitazione nazionale. Che non potrebbe che avere il sostegno di Mdp.
Renzi su questo ha già esposto la sua idea nell’ultima direzione di partito: più vicina ad accogliere le istanze dei pensionandi. E il mandato affidato ai suoi uomini a Montecitorio – nonostante la contrarietà di Palazzo Chigi – è abbastanza chiaro: si può presentare un emendamento – sempre alla legge di Stabilità – che rinvii lo scalino. «Ma solo se non si arriva ad un accordo, ma ad una rottura, tra Gentiloni e Camusso».
La “quarta gamba” è quella della Sanità. Sia dentro il Partito democratico sia alcuni esponenti dell’esecutivo hanno iniziato a ragionare su un provvedimento che venga incontro ad una delle richieste storiche di Bersani: l’abolizione dei Superticket.
Il Tesoro ricorda che in questa manovra esiste un margine per le iniziative “fuori sacco” che ammonta a circa 400 milioni di euro. Il governo, allora, «senza stravolgere i saldi», è pronto a valutare un intervento di questo tipo: rispettando la progressività e la gradualità di una eventuale misura. Nella sostanza senza cancellare i ticket per i redditi più alti.
La “quinta gamba” è probabilmente la più agevole dal punto di vista dei contenuti ma la più complicata sotto il profilo procedurale. È la legge sul biotestamento. Il Pd è pronto ad uno sprint anche su questa materia. Ma gli spazi per inserirla nel calendario del Senato sono piuttosto stretti. L’unica possibilità sarebbe sciogliere le Camere a febbraio e quindi concedere anche il mese di gennaio per gli ultimi voti in Parlamento. Una soluzione che, al momento, appare improbabile.
Sul calendario del Quirinale per ora la data cerchiata è quella del 18 marzo: la prima domenica utile perchè le elezioni si possano definire tecnicamente non anticipate e quindi permettano al governo Gentiloni di gestire l’ordinaria amministrazione senza le dimissioni e nella pienezza dei suoi poteri.
Resta comunque la difficoltà di una trattativa segnata in primo luogo dai dissidi personali. Anche sul tavolo delle proposte concrete, il rischio che ogni mediazione sia bruciata dai reciproci pregiudizi costituisce l’ombra più pesante sul futuro del centrosinistra.
REP.IT