– 7 giorni alla nuova Repubblica: la seconda immagine della campagna pubblicitaria del giornale
E’ un vero e proprio ritratto dell’Italia e del Mondo quello che emerge dalla campagna pubblicitaria che lancia la nuova Repubblica: il ritratto di un Paese bifronte, sospeso in un tempo indefinito, prigioniero dell’eterno ritorno del passato; guidato da partiti nati per unire e che invece sono più lacerati che mai; tentato da facili scorciatoie populiste; incerto davanti a diritti che dovrebbero essere fondamentali e che invece sono ancora assenti. Ma in una realtà sempre più complessa c’è sempre una possibilità di scelta, c’è sempre un bivio di fronte al quale il cittadino può decidere: quale strada imboccherà dipenderà dalla sua storia, dai suoi valori e soprattutto dalla conoscenza. Il primo atto per scegliere, dunque, è scegliere il giornale che sappia informarlo con libertà, accuratezza, spregiudicatezza. Un giornale tutto nuovo, come Repubblica in edicola dal 22 novembre. Vittorio Zucconi racconta una delle foto scelte per il lancio: Trump, l’inizio o la fine?
di VITTORIO ZUCCONI
Al termine del suo secondo anno di campagna elettorale – perché questo è la presidenza Trump, il proseguimento della campagna elettorale con altri mezzi – il Presidente degli Stati Sempre Meno Uniti d’America scava nelle contraddizioni di un Paese pericolosamente diviso. Se è vero che tutti i candidati corrono sempre sul filo del disgusto per “gli altri”, nessun Capo dello Stato americano aveva mai trasportato di peso alla Casa Bianca tutti i veleni usati e accumulati durante la corsa e frugato tanto nelle linee sismiche della società americana, sfruttandoli come “instrumentum regni”. Divide, Trump, ma non impera.
Da quando annunciò nel giugno del 2015 la candidatura si è sperato invano che il miliardario divenuto Presidente compisse il “pivot”, la rotazione da pusher di faziosità rancorose spesso compresse nei 140 caratteri di Twitter a “unificatore” di una nazione che vanta sulle proprie banconote il motto di “E Pluribus Unum”, “dai molti l’unità”. Non è mai, non è ancora arrivato il momento e si può disperare che arrivi. È stato invece nello sfruttamento della diversità che agita questo popolo di popoli, nella quotidiana eccitazione del “noi contro loro”, che Trump cerca rifugio. Il “Great Divider”.
La democrazia americana, il “Grande Esperimento” del quale scriveva Alexis DeTocqueville alla metà dell’Ottocento, vacilla come mai dagli anni della Guerra Civile o dalla Grande Depressione ottant’anni or sono. Barcolla per il costante sforzo di delegittimazione delle istituzioni che un Presidente, l’uomo che ha giurato di proteggerle da ogni nemico “interno o estero”, compie. Con la inquietante immaturità di un bambino settuagenario, che confidò a un biografo di “essere rimasto quello che ero in prima elementare”, corrode quotidianamente le istituzioni nazionali e internazionali, che hanno la colpa di non riconoscere la sua narcisistica grandezza. Permaloso, capriccioso, vendicativo.
Nel difendere se stesso Trump mina le fondamenta del “Sogno Americano”, che lui stesso proclamò “morto”. Mette in dubbio la massima rappresentazione della democrazia liberale, le elezioni, in cambio di presunte “Grandezze”. Ma non ha scelta, non vuole avere scelta. Come tutti i principi in difficoltà, tende a circondarsi di cortigiani e sicofanti, di Rasputin come il suo ufficioso “consigliore”, quello Steve Bannon che teorizza la distruzione di un “establishment” al quale anche Trump appartiene. Per mantenere compatta la falange del proprio elettorato minoritario, deve nutrirlo di odio, proteggendolo dalle cattive notizie vere e scomode, licenziate come “fake”, false, e consolandolo con notizie false e comode, accreditate come “true”, vere.
Così operando compatta la falange, promettendo prodigi fiscali, licenziando la tela del caso Russiagate che si infittisce, mentre l’odiato establishment, che ha il 90 per cento dei titoli a Wall Street, sparecchia succulenti profitti da un boom di Borsa che non sfiora il muratore. Scava il fossato con “loro”, con la folla indistinta di neri, immigrati, non bianchi, femministe, deplorevoli abitanti delle metropoli. La scommessa, già vincente, è che la minoranza di “noi” resti maggioranza nelle urne disertate da “loro”, così garantendo lo svuotamento della democrazia nella dittatura della minoranza.
Donald Trump è un altro di quei test che sembrano cercati per rispondere al dubbio che Benjamin Franklyn espresse quando gli fu chiesto che cosa avessero fatto i Padri Fondatori: “Vi abbiamo dato una Repubblica, se saprete conservarla”. Se due secoli di storia sono una prova, la Repubblica americana sopravviverà anche a Donald Trump.
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