Renzi promette i soliti bonus ma anche i suoi non ci credono
È un Matteo Renzi in modalità campagna elettorale, quello che ieri a ora di pranzo ha chiuso la Leopolda numero otto a Firenze.
Platea stracolma, cancelli chiusi in anticipo perché sotto le volte della ex stazione si era raggiunto il limite della capienza, ovazioni, entusiasmo, regia sapiente e musica martellante. Anche se, svanita la carica dell’elettrizzante clima leopoldino, in molti tra i fan del leader Pd – e anche tra i dirigenti – si chiedono quale sarà l’idea forte della battaglia per il voto, la proposta politica all’altezza della sfida, la riforma-bandiera da lanciare. Perché quella ancora manca: non basta il «servizio civile obbligatorio» per i giovani, che – promette Renzi – sarà «la nostra prima proposta di legge nella prossima legislatura». Non bastano i famosi bonus di 80 euro che «vanno estesi a famiglie che hanno figli, perché se non si fanno figli un Paese non ha futuro». Non basta neppure la pur sacrosanta lotta alle «fake news, che in verità andrebbero chiamate semplicemente propaganda», diffuse, accusa documenti alla mano il Pd, da entità collegabili, tramite «le stesse tubature della rete», a due partiti precisi, chiamati in causa anche dal New York Times: Lega e Cinque Stelle. «Vi abbiamo sgamati», avverte. E annuncia che «ogni quindici giorni» il Pd pubblicherà un report per denunciare «le schifezze che troveremo in rete», prodotte dagli avversari.
Se l’idea forte ancora non c’è, la consapevolezza del rischio non manca. E il rischio, per il Pd, è di finire schiacciato in una corsa a due tra centrodestra e grillini. Così Renzi prova a ribaltare la questione con l’ironia: «C’è un grande testa a testa tra Di Maio e Berlusconi, certo. Per capire chi arriva al secondo e terzo posto alle prossime elezioni». Un’attenzione particolare la dedica all’aspirante premier grillino: «Il problema – avverte – non è che sbaglia i congiuntivi o che confonde il Venezuela con il Cile. Il pericolo vero è che non sa distinguere una dittatura da una democrazia». Intanto, consapevole delle «percentuali da prefisso telefonico» del Pse in molti paesi, Renzi guarda a Emmanuel Macron, che ha incontrato pochi giorni fa, come sponda per il suo europeismo critico, «meno austerity e più crescita».
Di coalizione non parla, se non per dare il «benvenuto» a chi vuol esserci e assicurare «pari dignità» agli alleati, purché sia chiaro che è il Pd a guidare e che le riforme – come l’abolizione dell’articolo 18 – non si toccano. E ignora totalmente la sinistra scissionista di D’Alema e Bersani: la pratica viene lasciata a Teresa Bellanova, che viene dalla Cgil, è viceministro allo Sviluppo e sa infiammare l’anima sinistra del Pd. E Bellanova solleva applausi da far venir giù i muri quando attacca Mdp e quegli ex di cui il popolo Pd sembra ben lieto di essersi liberato, «quelli che hanno brindato il 4 dicembre, quelli che dicono di contrastare Berlusconi e i populismi attaccando Renzi e il Pd senza rendersi conto che così diventano i migliori alleati dei populismi e di Berlusconi».
Dalla Leopolda, mentre si apre una difficile campagna elettorale, esce l’immagine di un Pd ricompattato. Renzi ringrazia i padri nobili Fassino, Prodi, Veltroni e «tutti coloro che ci stanno dando una mano», e smentisce rivalità tra Luca Lotti e Maria Elena Boschi sulla composizione delle liste: i due pubblicano addirittura sui social una foto abbracciati, per dire che nel Giglio Magico regna la pace. Intanto, attorno è tutto un fiorire di congetture, in base all’applausometro della Leopolda attorno a chi saranno i candidati-bandiera del Pd: dalla giornalista Federica Angeli, sotto scorta per le minacce dei clan di Ostia, a Nino Bertuccio, sindaco anti-ndrangheta.
IL GIORNALE