Poveri genitori alieni sdraiati sulla vita dei figli
Gli adolescenti sono così affascinanti perché qualsiasi cosa facciano, la fanno con la meraviglia della prima volta. Lo aveva scritto il regista Louis Malle, spiegando in poche parole perché quell’età così difficile e densa della nostra vita sia irripetibile. E bellissima e tremenda. È anche un’età nella quale gli adulti si rispecchiano, per capire dove esattamente siano arrivati, a quali sogni abbiano abdicato, quali altri abbiano realizzato, con quanta malinconia siano disposti a vivere ogni giorno.
Il confronto tra adolescenti e adulti è stato negli ultimi cinquanta anni il motore dei mutamenti sociali. È stato per molto tempo un meccanismo che funzionava: le nuove generazioni combattevano le vecchie generazioni, convinte di poter fare meglio, di non meritare certe noie o storture che i genitori avevano intenzione di lasciar loro in eredità, volevano essere più impegnate o meno impegnate, più libere e felici, oppure più inquadrate e concrete. Libri, film e canzoni sull’adolescenza hanno creato l’epos dell’adolescente ribelle e romanticamente disperato. Qui una volta era tutto un «me ne andrò da questo posto e ti dimostrerò chi sono in un luogo nuovo e libero (libero da te e dalle tue regole del cavolo, matusa,
ndr)».
Ecco, una che gli adolescenti li sa raccontare come pochi, Francesca Archibugi, prende spunto dal libro di Michele Serra «Gli sdraiati» per avvisare con il suo film omonimo che le cose sono cambiate: gli adolescenti non sono più quella cosa lì che pensavamo.
Sono ancora una fortezza inespugnabile, sì. Sono ancora quelli che non ci sopportano, sì. Sono ancora quelli che capiscono di noi quasi tutto quello che vorremmo tenere loro nascosto, sì. Però non ci vedono più come una montagna troppo alta da scalare. Ci vedono come alieni.
È inutile fare finta di niente: hanno ragione. Li vedi, nel film come nella vita, uscire da scuola liberati dalla prigionia dell’aula, accendere il telefono e trovarlo nel medesimo istante squillante della chiamata disperata di mamma o papà o di tutti e due, pronti a chiedere dove sei, che fai, dove vai, quando torni, con chi sei, salvo non ricevere risposta e mettersi quindi a telefonare al numero del migliore amico (peraltro a quel punto già occupato dalle telefonate dei di lui ansiosi genitori). Loro vivono la loro vita e i genitori li inseguono su WhatsApp, chiedendosi perché abbiano visto il messaggio e non abbiano risposto, mandando le faccette sperando di fare i simpatici e risultando esauriti, condividendo musica che trovano fichissima e che per loro è da reparto geriatrico.
Questi ragazzi non lamentano l’assenza del genitore lontano e distaccato. Au contraire. Non ne possono più di noi che non riusciamo a stare senza di loro, senza la loro approvazione, senza le loro parole di conforto alla nostra vita fondata sull’amore per i figli, senza la loro presenza incombente ma rassicurante. Non sono loro che non se ne vogliono andare da casa. Siamo noi che li preghiamo di dormire ancora una notte nel lettone: «Ma questa volta è l’ultima papà, che sei grande». Gli sdraiati siamo noi.
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