Summit Ue-Africa, Mogherini: “I paesi africani facciano la loro parte riprendendosi i migranti”
Alla vigilia del summit Ue-Africa, Emmanuel Macron ha annunciato un’iniziativa «euro-africana» per far uscire dalla Libia tutte «le persone che si trovano in pericolo». Un progetto che contiene un messaggio chiaro, ad effetto. Ma che in realtà non porta nulla di nuovo sotto il sole di Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio che oggi accoglierà i leader europei e africani. «È esattamente quello che stiamo facendo: dall’inizio dell’anno abbiamo finanziato e sostenuto tredicimila rimpatri volontari» ricorda Federica Mogherini, Alto Rappresentante Ue per la politica estera, che guida i lavori dal lato europeo in questo vertice multicontinentale. Dove la questione migratoria è solo uno dei tanti capitoli, ma certamente quello più “caldo”. L’Europa ha chiesto ai partner africani «di fare la loro parte», accogliendo i connazionali attualmente bloccati in Libia. Dall’altra parte, però, sale il pressing per aprire canali di immigrazione regolare: «Credo che i Paesi europei, tutti, non possano più tirarsi indietro – sostiene Mogherini -. Perché l’Europa ha bisogno dell’immigrazione regolare».
«Sappiamo benissimo che l’apertura di canali legali è una battaglia politica in Europa, in ogni Paese. Ma due anni fa, durante il summit in Valletta, ci siamo presi un impegno: abbiamo promesso di aprire questi canali. E ora dobbiamo farlo, gli africani lo attendono. Personalmente credo che l’Europa abbia bisogno di immigrazione regolare. Per vari motivi: perché ci siamo presi un impegno, perché è un modo per combattere quella illegale, ma anche perché ci serve dal punto di vista economico e demografico».
Difficilmente vedremo i manifesti elettorali dei partiti che promettono quote di migranti…
«So che non è un argomento molto popolare, ma se domani mattina tutti i migranti dovessero sparire dall’Europa, interi settori della nostra economia collasserebbero. Da un giorno all’altro. Non è soltanto una questione di apertura e di giustizia, ma è un modo per rispondere a un’esigenza».
Nell’immediato c’è l’esigenza di salvare le persone che si trovano nei centri in Libia: l’opinione pubblica africana è scioccata dalle immagini diffuse dalla Cnn…
«È stato uno choc per tutti, ma non si tratta di una cosa iniziata un mese fa. Tutti ne erano al corrente da anni. Chiunque ha visitato tutti i posti lungo la rotta, dai Paesi d’origine fino alle coste italiane, sa benissimo che queste persone non possono muoversi liberamente. È per questo che tre anni fa abbiamo iniziato a lavorare con Iom e Unhcr per salvare queste persone».
Quelle immagini, però, possono segnare una svolta?
«Oggi tutti hanno la piena consapevolezza del problema, che può aiutarci a fare quello sforzo comune che prima non è stato fatto. Dal lato Ue, già un anno fa, avevamo messo in chiaro che questa sarebbe stata una nostra priorità, chiedendo all’Iom di iniziare a lavorare in Libia e di entrare nei centri a cui non avevano accesso. Abbiamo dato un sostegno finanziario e politico. Oggi questo choc può avere un effetto sulla volontà politica dei Paesi di origine».
In che modo?
«L’Europa e l’Onu hanno fatto la loro parte, ora serve che anche i governi africani facciano la loro. Nel 2017 abbiamo sostenuto il rimpatrio volontario di 13 mila persone dalla Libia. Tredicimila persone che abbiamo salvato. Molte altre sono state assistite, anche se non sono ancora tornate a casa. Ho chiesto all’Iom di accelerare con questo piano. Servono più aerei, più soldi, ma soprattutto serve che i governi africani accelerino le procedure, i documenti e tutto ciò che è necessario. Devono innanzitutto riconoscere che questi sono loro connazionali, anche perché spesso i migranti viaggiano senza documenti. Con gli africani al nostro fianco possiamo salvare decine di migliaia di persone».
Dall’Africa, però, arrivano accuse all’Europa, ritenuta “complice” della situazione in Libia.
«Non è affatto così. Se riguardiamo le interviste fatte a Lampedusa 2-3 anni fa, se riascoltiamo quelle loro storie, molte racchiuse anche nel film Fuocoammare, vediamo che la gente era già in condizioni di schiavitù. Ciò che noi abbiamo fatto è stato dire la verità, ammettere che c’è un problema. Ma non si risolve la questione puntando il dito, anzi. Solo con un approccio collaborativo potremmo salvare altre vite».
Vi accusano di aver siglato un patto “inumano” con i libici.
«È una critica infondata. Abbiamo formato 142 agenti della Guardia Costiera libica: davvero credete che questi possano cambiare la situazione dall’oggi al domani? Proviamo a ripercorre ciò che è stato fatto. Fino a pochi mesi fa noi salvavamo vite in acque internazionali, ma la gente moriva in quelle libiche. E noi non possiamo entrarci. Per questo abbiamo avviato la formazione dei libici, per metterli in condizione di salvare le vite in mare».
Che poi vengono rinchiuse nei centri di detenzione…
«Ogni passo che fai, trovi un problema. Salviamo vite in acque internazionali? Bene, però la gente muore in quelle libiche. Formiamo i libici per i salvataggi e vediamo che chi rischiava di morire in mare finisce rinchiuso nei centri in Libia. E chissà quale potrebbe essere il prossimo passo, se le organizzazioni internazionali potessero entrare in tutti i centri? Magari scopriremmo che ci sono condizioni simili altrove, lungo la rotta. Perché se i criminali hanno un network, probabilmente usano gli stessi metodi. Vorrei evitare che la discussione diventasse un modo per dire che “il problema è la Libia” oppure che “il problema sono i libici”. La catena di schiavitù non inizia in Libia. Purtroppo i trafficanti sono attivi dai Paesi di origine fino a quelli di destinazione, le ramificazioni sono anche lì».
Quindi cosa chiedete ai partner africani?
«Dobbiamo usare questa consapevolezza per fare in modo che tutti gli attori rilevanti facciano la loro parte. È un lavoro difficile, per certi versi “sporco”, perché purtroppo ti porta a scoprire situazioni terribili. Ma non è che se non ne vieni a conoscenza di certe situazioni queste non esistono. Serve una catena di responsabilità condivise per rompere questo meccanismo, una vera partnership che ci permetta di salvare altre vite. Non solo in Libia: per esempio noi stiamo facendo rimpatri anche dal Niger. Prima li salviamo e meglio è».
È solo una speranza oppure da questo summit arriveranno segnali chiari dai governi africani?
«So che lo faranno. So che sentono il bisogno di prendersi cura dei loro cittadini perché c’è un alto livello di indignazione nelle loro popolazione cui devono rispondere. A quel punto potremmo mettere in campo un vero modello virtuoso: noi finanziamo Iom e Unhcr per organizzare i rimpatri volontari e sosteniamo i progetti per permettere a queste persone di iniziare a ricostruirsi una vita nei loro Paesi di origine. Che però devono essere pronti a riaccoglierli».
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