Nascite in Italia, la paura del futuro in un Paese dove non ci sono più fratelli
Perché non facciamo più figli? Ogni volta che l’Istat ci ricorda il drammatico calo delle nascite (centomila bambini in meno in otto anni), riparte stanco il dibattito. I politici lanciano l’allarme (a chi? a se stessi?); se sono all’opposizione reclamano nuove misure di welfare per sostenere la maternità (che immaginiamo si aggiungano, chissà come, a quelle per sostenere le vecchiaia); se sono al governo si affidano al bonus bebè, in un Paese in cui le politiche sociali stanno diventano una specie di giungla di gratifiche, e l’85% per cento dei contributi assistenziali vanno agli over 65 anni.
Intendiamoci: ben vengano nuove misure, gli sconti fiscali per i pannolini o la tata, testimonierebbero quantomeno la consapevolezza dello Stato che il problema è grande anche dal punto di vista sociale, perché di questo passo non avremo più abbastanza lavoratori giovani per pagare le pensioni al numero crescente di anziani. E d’altra parte non ha senso sperare di sostituire gli italiani mancanti con una ondata di lavoratori immigrati.
Ma questa carestia di culle ha cause culturali forse anche più profonde di quelle sociali. Altrimenti non si spiegherebbe perché le donne immigrate, che di certo godono di meno aiuti pubblici, facciano 1,97 figli ciascuna, e le italiane solo 1,26. La lunga e dolorosa crisi economica ovviamente c’entra, e infatti nel 2016 si segnala finalmente un timido segno di ripresa nella propensione alla nascita dei primi figli. È evidente che molte donne hanno ritardato la maternità in attesa di tempi migliori. Ma così facendo sono arrivate al parto all’età media di 31,8 anni, due anni in più che nel 1995. In questo modo il serpente si morde la coda: si comincia a far figli più tardi, quindi aumentano i problemi di infertilità, quindi nascono meno bimbi, e tra loro meno future donne fertili.
Se si aggiunge una illimitata e spesso superficiale fede nelle risorse della tecnica, quasi che la provetta potesse sostituire del tutto e a qualunque età il ventre materno, si può giungere a paventare, come nell’omonimo libro di Lucetta Scaraffia, la «Morte della madre», intesa come figura simbolo di una società declinante. La crisi ha agito come un potente depressivo sulle famiglie italiane, e soprattutto sulle coppie più giovani. E non solo per il minor reddito disponibile, ma per l’enorme nu-vola nera che ha proiettato sul futuro del Paese. Eppure già da prima si poteva avvertire che dietro il calo delle nascite si nascondeva il senso di sfiducia generalizzato, di pessimismo, che attanaglia ancora l’Italia nonostante i primi segni di ripresa, e si concentra sul timore che per i nostri figli non ci sarà più abbastanza lavoro e benessere.
Osservando la loro condizione precaria e incerta, i giovani di oggi riluttano a mettere al mondo i giovani di domani. L’altro potente fattore di freno alla maternità affonda probabilmente le sue radici nella persistente arretratezza che caratterizza da noi i rapporti tra i sessi. Colpisce il numero di donne che nel-la vita di ogni giorno, interrogate sul perché non abbiano ancora figli, rispondono: perché non ho ancora trovato l’uomo giusto. Dove «l’uomo giusto» sarebbe quello che non scarica addosso a loro tutto il peso della maternità, dell’allevamento, della cura, della vigilanza, della educazione dei figli.
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E, diciamoci la verità, per quanto molte cose stiano cambiando, i padri italiani non sembrano ancora campioni di responsabilità parentale. Si fanno dunque meno figli per paura del futuro. Ma le famiglie meno numerose producono a loro volta un ef-fetto sul futuro. Una generazione di figli unici sta crescendo nelle nostre case senza fratelli, con molti nonni e qualche bisnonno, con i quali convive per un tempo sempre più lungo. Gli stessi valori su cui è fondata la nostra civiltà possono essere affetti da queste mutazioni. Ha notato lo scrittore Christian Raimo, per esempio, che il concetto di fratellanza è molto più difficile da apprendere in famiglie senza fratelli. Un’inversione di tendenza potrà dunque avvenire solo quando ci sarà piena consapevolezza di queste cause culturali. Quando ricominceremo a pensarci come una comunità invece che come un agglomerato di interessi, e riprenderemo a premiare chi investe sul futuro, invece di dilaniarci per risorse sempre più limitate di spesa pubblica. Come seppero fare i nostri genitori, la cui spinta vitale generò il baby boom del dopoguerra, in un Paese dalle condizioni economiche e sociali non certo migliori di quelle di oggi.
This entry was posted on mercoledì, Novembre 29th, 2017 at 09:58 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.