Un azzardo sulla pelle di Gerusalemme

 

Il presidente Trump ci ha abituato a molte, impreviste e sorprendenti, decisioni in politica estera. Dalla rottura dell’accordo con l’Iran sul nucleare al ravvicinamento alla Russia, dall’abbandono del protocollo sul clima all’accelerazione dello scontro con la Corea del Nord, passando per gli sgarbi nei confronti dell’Europa, il leader Usa ha ridisegnato confini e storie che hanno definito la seconda parte del ventesimo secolo. La più recente decisione (il cui annuncio è atteso per le prossime ore) di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, potrebbe funzionare, in questo quadro di cambiamenti, come la miccia e l’acceleratore di un nuovo ciclo di guerre.

Il condizionale è però d’obbligo perché, nonostante il vasto giro di telefonate fatte dal presidente americano ai vari leader arabi, la decisione non è ancora stata annunciata. I tempi paiono, comunque, lunghi – almeno sei mesi prima di ogni trasferimento. E l’annuncio quando sarà pronunciato dovrà essere soppesato parola per parola. Nell’intricatissimo nodo di vite, storia, architettura e politica che costituisce la contesa fra palestinesi e israeliani, la geografia è da sempre la padrona di casa: e nessuna mappa è più politica (e confusa) di quella di Gerusalemme, culla di 3 religioni monoteiste e capitale reclamata da 2 nazioni, il cui status è da decenni ormai il cuore del conflitto arabo-israeliano.

Settanta anni fa, alla fine sanguinosa del mandato britannico, l’Onu votò la partizione della Palestina, in cui Gerusalemme venne definite una “entità separata sotto supervisione internazionale”. Nella guerra del 1948 la città era divisa in due aeree sotto rispettivo controllo di Giordania e Israele, modello Berlino durante la Guerra Fredda. Nel 1967 la divisione venne alterata dalla vittoria di Israele, che catturò, occupò e annesse l’area est; una unificazione che non è stata mai riconosciuta internazionalmente.

Da decenni dunque, quello di Gerusalemme, è uno status sospeso, che venne lasciato di proposito indefinito (“a permanent status negotiating issue that can only be settled by direct negotiation”) anche dagli ultimi, più rilevanti, accordi di pace, quelli di Oslo, seguiti alla prima Guerra del Golfo, nel 1993.

Oggi la città è una realtà a due teste, la zona Est, in cui vive il 37 per cento degli arabi dei Territori, capitale del desiderio della Palestina, e la zona Ovest capitale del desiderio di Israele, sede della Knesset, il Parlamento di Israele, e del governo.

La conseguenza di questo stato sospeso è una difficile coabitazione fra palestinesi e israeliani, fonte di permanente guerriglia e scontri, due città divise da un contrasto quasi incomprensibile fra ricchezze e libertà. E con non poche assurdità diplomatiche: ogni paese ha la sede della propria ambasciata a Tel Aviv e ben due consolati a Gerusalemme, uno per est, uno per ovest, spesso a poche centinaia di metri di distanza.

Cosa dirà esattamente Trump si applicherà a questa mappa. Per cui farà differenza se parlerà di Gerusalemme come doppia capitale, o se ne parlerà solo come capitale di Israele. Nel primo caso una linea di trattativa resterà aperta. Nel secondo, dobbiamo aspettarci un nuovo e prolungato periodo di scontri e guerre. Del resto, lo stato di allerta è già salito in tutto il mondo.

Ma perché Trump va a toccare un equilibrio così precario, rischiando di fomentare il fuoco sotto la cenere, proprio mentre vince la guerra contro l’Isis e si cerca una soluzione per la Siria? Questo è forse l’aspetto più incomprensibile di questa decisione.

Le risposte che vengono offerte sono molte, ma nessuna davvero convincente. La spiegazione ufficiale è che il Presidente aveva fatto la promessa di spostare l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme in campagna elettorale e ha già rimandato a lungo la decisione. Una legge del 1995 chiede da parte del congresso che Gerusalemme sia riconosciuta capitale di Israele, ma da allora ogni presidente ha esercitato il diritto di non autorizzarne l’applicazione. Lo stesso Trump ha evitato l’autorizzazione per ben due volte.

La promessa è considerata un punto di identità da parte di molti movimenti cristiani radicali, e da ambienti ebraici più conservatori. E occorre ricordare che il dossier Israele è nelle mani del genero, il marito di Ivanka, Jared Kushner, che è un ebreo ortodosso, dunque molto allineato su questa posizione identitaria.

Una promessa da mantenere dunque, il cui tempo è arrivato opportunamente – si dice – nel momento in cui si fanno più stringenti le indagini sulle relazioni fra il gruppo di Trump e la Russia di Putin. Vanno poi considerate – si dice ancora – le elezioni prossime di midterm.

Ma nemmeno tutto questo spiega perché Trump metta sul piatto di un consenso interno l’equilibrio mediorientale, dove gli Usa hanno molto da perdere.

Ad esempio, se le strade delle varie capitali mediorientali si riempiono di nuovo di manifestazioni contro Israele, si riapre anche indirettamente quel diritto a manifestare che, dopo le primavera arabe, è stato messo da Istanbul al Cairo sotto chiave. Le prossime turbolenze contro Israele rischiano così di fare da battistrada a prossime turbolenze interne nei vari paesi.

In uno sviluppo del genere diventerebbe difficile continuare a far funzionare anche il fronte costituito da Trump con l’Arabia Saudita contro l’Iran, e con la Russia contro l’Isis. Dunque perché scuotere l’albero?

Forse perché – dicono alcuni analisti – c’è un secondo possibile risiko che l’amministrazione attuale considera: la possibilità di consolidare una alleanza per ora solo nei fatti – quella fra la parte più intransigente di Israele e, magari, la nuova leadership dell’Arabia Saudita. Ian Black, giornalista di lungo corso in Medioriente, riferiva ieri sul Guardian proprio della circolazione – per ora molto vaga – di questa idea.

Il governo di Israele è convinto che in questi ultimi anni di guerre intestine nel mondo arabo, anche una buona parte dell’opinione pubblica araba si è convinta che Israele è stata in fondo un buon alleato, sia pur solo funzionale, nei confronti del terrorismo e dell’Iran. E che dunque una forma di nuova partizione, che includa Gerusalemme sia possibile, facendo tornare in campo Israele nel nuovo assetto della regione.

Magari con l’aiuto del riformista principe Bin Salman di Arabia che con Israele condivide oggi la voglia e la necessità di porre un freno all’Iran, in nome della rivincita sunnita, contro gli sciiti, costi quel che costi. E se il Regno conosce bene un’arte è quella di muovere uomini e denari. Uomini che i palestinesi hanno in abbondanza, e denari di cui i palestinesi hanno disperatamente bisogno. Fantasie, forse. O audacia. Ma anche di queste il Medioriente è pieno.

L’HUFF.POST

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