“La pancia dell’Italia è a destra Quei divieti non hanno senso”
Antonio Pennacchi (classe 1950) è, probabilmente, lo scrittore italiano che meglio ha raccontato il complesso rapporto tra la politica di destra e quella di sinistra.
Lo ha fatto non guardando fuori di sé, piuttosto con una sua personale via introspettiva e familiare che ha portato a romanzi come Il fasciocomunista (che oggi torna in libreria in una versione nuova, completamente riscritta dall’autore) o Canale Mussolini (entrambi pubblicati per i tipi di Mondadori). La nuova versione de Il fasciocomunista arriva in libreria proprio in un momento in cui il Paese, sui simboli della destra, sembra essere sull’orlo di una crisi (di nervi) politica.
Pennacchi il «fasciocomunista» del titolo del suo libro cosa descrive un binomio inconciliabile?
«No, nel mio caso racconta una ricomposizione. Il reale è dialettico e io nella mia vita questa dialettica l’ho attraversata e ricomposta. Sono stato a destra e sono stato cacciato e poi sono stato a sinistra. Ho fatto un percorso interiore, in questo mi ha aiutato essere nato a Latina e la storia della mia famiglia…».
Il Paese però non l’ha fatto questo percorso di ricomposizione, a quanto sembra…
«Non l’ha fatto la politica. La destra vuole ricordarsi la storia a modo suo. Del fascismo ricorda solo le bonifiche, lo Stato sociale, e si dimentica le leggi razziali, la guerra senza senso. La sinistra, all’opposto, cancella il buono e ricorda solo la parte di storia che le fa comodo. La tendenza è quella di tenere solo quello che non è ideologicamente fastidioso».
Ma c’è un ritorno di una destra oltranzista? Lei vive a Latina, conosce quel mondo: le sembra ci sia un nuovo fascismo?
«Io faccio il narratore e me la cavo meglio a raccontare il passato, il mio, che a raccontare il futuro. Alla fine cosa vuole che le dica, il personale è politico. Se la politica non educa e si limita a seguire il Paese la gente cosa può fare? Reagisce di pancia, segue la pancia… E la pancia è di destra. Ma la soluzione non può essere il vietare. Coi divieti non si va lontano. Qui dicono tutti solo e soltanto no a tutti. No al fascista, togli Dux dal monumento. Ma anche dall’altra parte c’è solo il no all’immigrato».
Insomma la legge Fiano non serve…
«Sono annichilito dalla pochezza della politica attuale. Forse dopo la caduta della Prima Repubblica serve una palingenesi totale… Ma come le dicevo, me la cavo meglio con il passato che con il presente».
Però forse il presente è così perché quel percorso di ricomposizione che lei ha vissuto personalmente il Paese non l’ha attraversato. È così?
«Sì, solo pochi di quelli che hanno attraversato il periodo che ho attraversato io – la contestazione, il Sessantotto – sono arrivati a una ricomposizione. Come dicevo, c’è chi invece preferisce il muro contro muro».
È la scrittura che l’ha aiutata a rielaborare?
«No, io ho scritto molto tardi, prima ho fatto altro, trent’anni di fabbrica. Ho scritto a maturazione avvenuta. Ho scritto alla fine».
Però forse la sua generazione aveva una coscienza politica più stratificata. Qui il clima si arroventa per una bandiera che poi si scopre essere del Kaiser…
«Non sia schematico. Non tutti facevamo politica. Anche allora c’era chi semplicemente se ne andava a ballare. Certo, per chi la faceva la politica era considerata una cosa alta. Non semplicemente farsi i cazzi propri. Le bandiere, i fazzoletti al collo… Non possono essere queste le cose al centro del dibattito. Il problema è la bandiera o piuttosto che non ci sono dei veri aggregatori di idee? Che c’è un vuoto e nessuno lo riempie?».
Ma perché ha deciso di fare una riscrittura completa del Fasciocomunista?
«Ho riscritto Il fasciocomunista perché io cerco di spiegare concetti complicati nella maniera più popolare possibile. E non è detto che in questo processo ci si riesca al primo colpo. Io lavoro per i posteri, come è giusto per uno scrittore e rileggendomi non ero soddisfatto sul piano formale. A proposito volevo chiederle un favore e ringraziarla di una cosa…».
Prego dica…
«Grazie di non avermi chiesto niente di Renzi».
Ci mancherebbe, Renzi non è mica obbligatorio.
«E poi per cortesia non mi faccia parlare in romanesco come fanno sempre quando mi intervistano…».
Ps: L’intervistatore garantisce che Pennacchi per lo più non ha usato coloriture dialettali.
IL GIORNALE