Le illusioni dei partitini svaniscono

Lucia Annunziata
 

Meno male. Diciamocelo: la fine di un po’ di liste minori, un po’ di addii al futuro politico, lo sciogliersi e il formarsi ancora prima di entrare in azione di micro-coalizioni intorno al Pd, provoca – almeno nel mio cuore di elettore – una celebrazione. Capisco che il fallimento delle ambizioni di un progetto politico, di lista o personale, è in una democrazia un fallimento, sempre. Ma sempre davvero?

 In questa spietata vigilia elettorale stiamo assistendo a un ciclo di eventi che, a memoria dei più giovani, non si vedeva da anni. Dopo aver navigato sotto le vele sicure di un ferreo bipolarismo, introdotto in Italia a furor di popolo nel 1994, il sistema politico – modificato di nuovo a furor di popolo nel tripolarismo a sorpresa uscito dalle urne del 2012, con la affermazione di un terzo partito, il M5S – si è infine spappolato tornando al buon vecchio schema del proporzionale. Il che significa, per chi non ricordasse il passato, che ogni uomo vale un partito e ogni partito può ambire ad essere determinante nella formazione di un governo.

Il massimo della democrazia, appunto. Anni di Prima e Seconda Repubblica ci hanno insegnato che governi senza salde coalizioni e chiari progetti possono essere una giostra irrefrenabile, e che a volte persino nel sistema bipolare più solido, le grandi coalizioni senza programmi consolidati hanno i piedi d’argilla. Come non confessare dunque che la crescita esponenziale di micropartiti, microsigle e microambizioni individuali nelle passate settimane non è mai stata, ai miei occhi, una espressione di superiore democrazia, tantomeno di rassicurazione?

 

Per cui, lo ripeto: meno male che è finita come sta finendo. La caduta di accordi, il ritiro dalla scena di leader politici come Pisapia ed Alfano, e ora l’incertezza di quel che resta va vista come una salutare presa d’atto, un bagno di realismo, che per la prima volta da parecchi mesi reintroduce la realtà al posto dei sogni. Quello che viene visto da molti come un «fallimento», di individui e di ipotesi politiche, è nei fatti una grande e molto necessaria pulizia. Che ci fa intravedere qualche barlume di verità.

 

La crisi infatti riguarda un panorama di illusioni, un racconto di macchine che in realtà non avevano motore. Giuliano Pisapia è un uomo che è sempre stato un leader riluttante e un politico luterano – negli anni ricordiamo la certezza con cui nonostante il dispiacere abbia preso posizioni scomodissime, rispetto alla sua area di appartenenza, come quella garantista. A Milano aveva funzionato perché la istituzione eminentemente monocratica del sindaco lo ha messo in grado di esercitare il suo ruolo senza venire a compromessi con sé stesso e le sue idee – a cominciare da piccole grandi scelte come quella del non accesso al centro città. Non poteva assolutamente sopravvivere in una condizione in cui le alleanze sono fluide e il programma secondario rispetto alla necessità di trovare numeri elettorali. Ha fatto bene ad andare via dunque, e a lui va il ringraziamento degli elettori per il chiarimento che la sua scelta introduce.

 

Uguale merito condivide Angelino Alfano, un uomo che è stato fino a pochi giorni fa la nemesi di Pisapia, una delle ragioni della impossibilità a mettersi in una coalizione con il Pd. Anche Angelino, esatto opposto di Pisapia nel percorso e nella opinione popolare, Angelino morbido, accomodante nelle scelte, pronto a farsi, come dicono al Sud, concavo e convesso, anche questo Angelino ha detto addio con una frase bellissima per un politico «mi cercherò un lavoro». Alle orecchie dell’elettore attuale, questa frase è un intero programma. Un altro grande chiarimento.

 

Restano le sorti di quelli che rimangono – tutti con mal di pancia. I radicali ed europeisti, scontenti della politica del Pd sull’immigrazione; i membri del partito di Alfano, da Lorenzin a Lupi, essi stessi divisi su quale parte scegliere; e i moderati ancora in attività come Casini. Mentre a sinistra si battono colpi in tutte le direzioni: cosa farà il presidente Boldrini ci si chiede? E ci sarà un qualche pezzo di sinistra a sinistra che rimane intorno al Pd? E alla sinistra intorno a Liberi e Uguali, si aggregheranno alcuni di questi pezzi di moderati? Domande che, nel grande quadro del voto, sono quasi irrilevanti nella loro dimensione. Mi piacerebbe, anche, qui, ricordare che se anche il disastro che descriviamo va dal centro a sinistra, il panorama che si disegna dal centro alla destra non è meno fluido. Le inquietudini di Salvini, la rimonta dei favori dei camerati neri, la moderazione di Silvio a malapena tenuti insieme da una qualche certezza di poter vincere uniti.

 

La liquefazione dei partiti è in effetti un dato strutturale delle nostre democrazie: nei passati cinque anni si sono dissolti i parametri e le macchine di funzionamento di tutte le nazioni europee – la Germania e l’Inghilterra esempi massimi di quanto in alto è arrivato lo tsunami – e degli Usa. Rispondere a questo orizzonte di crisi con tentativi superficiali, operazioni politiche rabberciate senza programmi e idee, sarebbe come curare una ferita d’arma da fuoco con un cerotto.

 

Per questo è giusto dire che i fallimenti anticipati di cui siamo testimoni sono un bene per tutti – politici ed elettori. Ripuliscono l’orizzonte e rimettono la verità al centro della scena. Dunque, è ora rimasto solo Matteo Renzi, come tutti scrivono in queste ore? La risposta è no. Questo processo di chiarimento è anche per lui un’operazione verità. E’ la prova di quanto diverso sia diventato il Pd ricostruito da lui in questi anni; così diverso da non poter più coalizzare una parte di moderati e di sinistra che prima si riconosceva nel Pd.

 

Accettare questo dato di fatto non costituisce per Renzi né fallimento, né solitudine. Al contrario, è per lui una incredibile opportunità per far progredire il suo progetto – che, dopotutto, si chiama «un uomo solo al comando».

LA STAMPA

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