Fuga dal Palazzo ma l’esperienza serve

Nelle professioni e nei mestieri l’esperienza, insieme all’innovazione, è considerata una risorsa da custodire e valorizzare per vincere le sfide del mercato. In politica invece è passata da anni l’idea che il cambio sistematico delle schiere parlamentari sia l’antidoto al professionismo di Palazzo, lo strumento più valido per rigenerare il sistema. È un falso mito con cui si tendono a coprire vuoti progettuali e a perpetuare leadership in crisi. Ma è un meccanismo che, applicato in modo radicale, finisce per danneggiare i cittadini. A furia di rinnovare, infatti, si rischia di non avere personale adeguato a svolgere i compiti istituzionali. Già la legislatura che sta per finire ha rappresentato una novità storica, visto che — per ragioni diverse — i leader delle maggiori forze non sedevano tra gli scranni di Camera e Senato. In più si assiste ora a una fuga dal Parlamento. A prescindere dal giudizio soggettivo, è innegabile che persone come Alfano, Di Battista e Pisapia avrebbero potuto dare un maggior contributo rispetto a un neoeletto che avrà bisogno di tempo per formarsi. Ma i partiti non sembrano curarsi di questo problema: applicano lo spoil-system come un maquillage per tentare di conquistare consensi, e lo gestiscono arbitrariamente, sfruttando i modelli elettorali, senza lasciare l’ultima parola alle urne.

L’inesperienza però non paga, specie ora che le scelte nazionali influenzano e sono influenzate dalle scelte sovranazionali. Ed era inevitabile che l’assenza di apprendistato in Parlamento si riverberasse nel tempo sulla qualità dei governi. Non sono mancati casi di ministri in balia della burocrazia italiana e della tecnocrazia europea, rette — quelle sì — da strutture longeve ed esperte, capaci di muoversi nel labirinto delle regole e di influenzare se non addirittura orientare le decisioni sui dossier.

Di qui le periodiche polemiche sull’«assenza della politica» nella formulazione delle leggi e delle direttive comunitarie. Ma il danno è (anche) conseguenza di quel raggiro culturale, perché la mancanza di peso e di autorevolezza a un tavolo di trattative sconta (anche) la mancanza della conoscenza.

Fin dal sorgere della Seconda Repubblica l’opzione nuovista è stata la risposta alle incrostazioni di potere del vecchio sistema e alle sue degenerazioni. Purtroppo si è finito per gettare il bambino insieme all’acqua sporca: non solo il problema si è riproposto, ma in molti casi i partiti hanno spacciato come ricambio generazionale il meccanismo della cooptazione. Così il rinnovamento dei gruppi dirigenti — che è fondamentale in politica — si è inceppato. È vero, ci sono delle eccezioni, che non a caso rimandano agli unici partiti i cui vertici sono rimasti «scalabili»: il Pd e la Lega. Ma la legge elettorale appena varata, e che porta di fatto dei «nominati» in Parlamento, alimenta il sospetto che i rispettivi leader abbiano voluto riprodurre un modello di controllo simile a quello di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle.

La politica italiana appare così un mondo alla rovescia. Evoca la trasfusione della «società civile» nelle liste per garantirsi un’altra legislatura di immortalità. Propone agli elettori il cambiamento per scongiurare il rinnovamento. E intanto a ogni tornata elettorale si abbassa il rating dei rappresentanti, che magari avrebbero delle potenzialità se gli venisse concesso del tempo, se il loro tempo non fosse contingentato, se in un breve volgere anche loro non diventassero il vecchio da sostituire, sacrificati sull’altare di una falsa credenza. Nelle altre democrazie occidentali l’apprendistato nelle istituzioni è considerato invece un investimento sul futuro dei partiti e quindi anche del Paese, garantisce la crescita di nuove generazioni che vengono addestrate all’esercizio della responsabilità. Non esistono «sinedri», non ci sono «ras» e non si bada nemmeno alla data di nascita, che è un altro falso mito: i leader perdenti si dimettono e le forze sconfitte si attrezzano alla successiva sfida con un rinnovato gruppo dirigente e un altro programma. Cambiano i vertici non le basi parlamentari, il cui destino è affidato al giudizio dei cittadini. È la selezione elettorale, la via darwiniana alla politica che consente alla lunga di avere politici esperti, non parlamentari usa e getta.

CORRIERE.IT

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